Pedagogia e psicologia
La pedagogia: scienza educativa e preventiva delle patologie psicologiche e cognitive.
La psicologia: scienza che si occupa della cura o assistenza delle malattie psichiche.
Analisi pedagogica del corso di formazione riconosciuto dal
MIUR Conoscenza delle forme di disagio negli allievi per prevenire gli abbandoni scolastici
Proposto dall’Associazione La scuola che verrà.
Abstract
L’analisi propone la distinzione tra la professione pedagogica e quella psicologica, mettendo in risalto le differenze e i limiti delle due attività non sovrapponibili, considerando una formazione identitaria del professionista ben strutturata nell’esercizio delle proprie funzioni.
Nota sulle persone citate nel testo:
Massimo Fagioli: 1931-2017. Psichiatra e psicoterapeuta, noto per la scoperta della fantasia di sparizione, base di quella che lui stesso ha chiamato Teoria della nascita e per i seminari di Analisi collettiva.
Maria Montessori: 1870-1952. Neuropsichiatra infantile e Pedagogista.
Paolo Fiori Nastro: 1952. Psichiatra e psicoterapeuta, Dirigente Medico I livello, Università degli Studi di Roma “Sapienza”, Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, UOD di Psicoterapia Policlinico Umberto I.
Riccardo Saba: psichiatra e psicoterapeuta. Svolge attività clinica e corsi di formazione nelle scuole.
Tiziana Cristofari: 1972. Pedagogista, docente e scrittrice.
Introduzione
Dopo 121 anni dal primo Congresso Pedagogico Nazionale di Torino in cui Maria Montessori spiegava come la scienza pedagogica fosse il fondamento della riuscita scolastica di tutti gli studenti, ancora non si accetta la nuova scienza (riconosciuta con la L. 205/17) tentando di farla passare per quella che non è, o attribuendole competenze improprie.
Il livello VII riconosciuto dalla legge in ambito europeo per la professione pedagogica non è inferiore a quello dello psicologo. Pertanto è da tenere presente che i profili sono equiparati nel valore, ma con confini di esercizio nettamente distinti e separati.
Pubblico due lettere inviate al Professor Paolo Fiori Nastro (di cui non c’è stata risposta scritta). Di seguito alcuni appunti sul corso che chiariscono la posizione privilegiata della pedagogia in ambito scolastico. Di come la prevenzione medica sia limitante all’insorgenza della patologia psichiatrica e di come invece sia fondamentale la prevenzione pedagogica.
Lettera scritta dopo la prima giornata di corso
«Gentile Professor Paolo Fiori Nastro,
partecipare a un corso nella sala dove tante volte ho sentito parlare Massimo Fagioli è stata una vera emozione. Poter ascoltare ancora argomenti interessantissimi e inerenti la mia professione, mi ha trasmesso un senso di appartenenza impensabile.
Le scrivo però, perché sento che una domanda che è stata posta è rimasta (almeno nella mia testa), senza un’adeguata risposta e che probabilmente, nella Vostra sede, non poteva essere trovata. Ho pensato molto al perché, dato che nella ricerca psichiatrica di Massimo Fagioli ho trovato sempre una risposta alle domande che sono andata cercando come professionista (anche se non mi occupo di cura).
La domanda a cui faccio riferimento è quella posta da una donna che chiedeva come una docente si dovesse muovere nel momento in cui intuisse che un suo alunno ha i sintomi di una manifestazione depressiva. Si chiedeva, constatando che la non voglia di studiare dello studente è un’impossibilità a farlo dovuta alla cattiva relazione con la famiglia e pertanto a un malessere psichico, non essendoci inoltre uno sportello psicologico nella scuola, come avrebbe potuto e dovuto affrontare la questione. Ovviamente Lei ha risposto consigliando di parlarne con la famiglia.
Le confesso che, come docente, questa spiegazione abbastanza scontata mi ha lasciato l’amaro in bocca in quanto, se la famiglia non risponde positivamente, all’insegnante non rimarrebbe che scontare la frustrazione per quell’alunno. Ma è anche un altro il motivo dell’amarezza che sento. Come categoria professionale siamo “addestrati” dalla società tutta a pensare attraverso due vie: una è quella di far ricadere interamente le problematiche degli studenti “difficili” sulla famiglia; l’altra è quella di seguire solo gli alunni che per situazioni ambientali favorevoli vanno bene, lasciando indietro (bocciando) tutti gli altri. Ovviamente, quella domanda che sembrava scontata, ma che è sempre stata anche nel mio cervello, era una richiesta più profonda di aiuto, che però, da parte Vostra effettivamente, non poteva che avere quella risposta e che ovviamente condivido.
Come pedagogista però non l’accetto. E d’un tratto ho avuto la sensazione che ad un corso destinato ai docenti forse, manca una figura professionale capace di rispondere adeguatamente a quella domanda, per la quale non si può partire dalla cura, ovviamente, ma da ciò che in classe è possibile fare anche e forse soprattutto con chi è più fragile. Pertanto quella risposta avrebbe dovuto essere: “Si può fare molto con una “relazione pedagogica” intesa come un processo complesso di relazione-didattica-metodo, che purtroppo bisogna constatare essere completamente assente in ambito scolastico”.
Partendo dal presupposto che educare deriva dal latino ex-ducere, che significa condurre fuori, ovvero far venire fuori dallo studente ciò che è dentro di lui; vuol dire aiutare o lasciar libero qualcuno di esprimere se stesso, di essere quello che è, di comportarsi in modo conforme alla sua personalità permettendogli di tirar fuori ciò che più gli appartiene, sviluppando e accrescendo la consapevolezza di sé, di ciò che sa e/o che può imparare; esattamente quello che in altre parole dice Fagioli della relazione sana che permette al bambino di accrescere la vitalità già insita in lui. In pratica l’educazione sarebbe esattamente il contrario di ciò che comunemente si intende con questa parola, sarebbe un far uscire e non un mettere dentro, sarebbe un rafforzare la personalità dell’educando e non un formarla (o addirittura forgiarla come si continua a dire), sarebbe un rispettarne l’originalità e non il costringerla in un modello.
Partendo da questo presupposto, se il modo di educare del docente fosse così come descritto sopra, noi insegnanti potremmo fare molto di più che comunicare alla famiglia le avvisaglie di una ipotetica depressione (che comunque, qualora si supponessero, sarebbero da valutare ed eventualmente diagnosticare, anche se sono certa che non sono pochi i ragazzi con questa necessità).
È pur vero però, che mentre io come docente posso costruirmi degli strumenti per comprendere se lo studente è un probabile depresso, è anche vero che nella relazione umana con me insegnante, formata alla conoscenza pedagogica e didattica, nonché del metodo, quel probabile depresso potrebbe comunque trovare un ambiente che lo accoglie permettendogli anche di studiare in classe, nonostante le sue difficoltà o la sua depressione (e anche se poi andrebbero comunque valutate e curate in altra sede). Inoltre, nella mia esperienza come docente di pedagogia e antropologia per ragazzi diversamente abili all’università, storia e filosofia al liceo, italiano alle scuole superiori di primo grado per poi essere anche docente alle scuole primarie, posso affermare che questo lavoro di studio in classe con una corretta relazione educativa (pedagogica), è possibile.
Dico questo perché ho sperimentato varie metodologie di studio anche e soprattutto per bambini-ragazzi che avevano quella pesantezza mentale tale da non riuscire a fare nulla; metodologie che spaziano dai giochi didattici con i bambini fino ad uno studio possibile e affrontabile per gli adolescenti e svolto completamente in classe, in collettività e con un certo dinamismo.
Certo è che, se il lavoro del docente (qualora fosse anche umanamente corretto), rimane ancorato al nozionismo e al voto da assegnare, allora è giusto e doveroso scaricare il problema sul medico in psichiatria o comunque alla famiglia.
Quello che vedo è una passività del docente nell’affrontare gli studenti più in difficoltà, scaricando il problema oramai molto spesso quasi esclusivamente sulla medicina. Sicuramente non è il caso dei frequentati il Vostro corso, ma non Le confesso che quella domanda, che ora, ripensandoci, mi sembra retorica, un pochino lo conferma. Se io come docente non posso intervenire nella cura (come è ovvio che sia), la domanda posta a lei è scontata e tendenziosa. Scontata in quanto la famiglia è l’unica a poter intervenire, tendenziosa in quanto Lei (forse) non avrebbe mai potuto fornire strumenti per una ricerca scientifica pedagogica e metodologica-didattica alternativa.
È per questo che mi permetto di dire che lo strumento che può fornire (e non è poco) il Vostro corso informativo, è la consapevolezza (sempre se il docente la vuole accettare) che uno studente che non ha voglia di studiare, è un ragazzo che non riesce a studiare perché sta male. E io, come pedagogista sono perfettamente d’accordo con Lei quando sostiene che non esiste lo studente svogliato! Ne ho tantissime prove di bambini e ragazzi che sembravano persi senza alcuna voglia di studiare, ma che poi nella relazione pedagogica/didattica adeguata con me hanno ritrovato motivazione e stimolo a farlo; anche se a differenza di Voi non compio alcun atto medico, ma solo una relazione pedagogica e un’attività didattica innovativa, creativa e pensata per loro, consapevole che quel “non ho voglia di studiare” è un “non riesco a studiare”.
Certo, con questo discorso non voglio dire che non ci sarebbero più i depressi o che non ci sono. Quello che vorrei dire è che una risposta a quella domanda c’è e non è una risposta medica, ma prettamente pedagogica/didattica e pertanto di competenza di tutti quei docenti che sono al corso se solo avessero la creatività o la preparazione per attuarlo. Ma sappiamo purtroppo che la scelta del personale docente, proveniente da diverse realtà accademiche e pertanto con diversa formazione, è sprovvista sia di contenuti pedagogici che didattici-metodologici.
Per farLe degli esempi di ciò che voglio dire, se il docente non fosse rigidamente inchiodato a un ruolo che è quello di colui che deve fare tutto lo specifico programma e deve mettere durante l’anno continuamente dei voti che demotivano, creano competizione e conflittualità tra figli e genitori, docenti e studenti, studenti e studenti ecco, se solo questi due stereotipi di lavoro fossero un pochino messi da parte, si potrebbe dar vita a una metodologia di studio collettivo in classe con la partecipazione di tutti (insegnanti compresi) per cui lo studio a casa non sarebbe neppure necessario, o potrebbe essere un approfondimento per coloro che giustamente, hanno voglia e benessere per approfondire. Voglio dire. Se la scuola fosse pensata per la crescita umana e non per il nozionismo al quale il 90% degli insegnanti si adegua, tutti gli studenti potrebbero raggiungere i risultati auspicati. Personalmente ho reso possibile agli studenti di sezioni complesse e difficili di studiare in classe, fare ricerca, discussioni e approfondimenti, portando tutti loro (nessuno escluso) a risultati soddisfacenti per la promozione. Tutto questo è stato possibile trattando gli argomenti più importanti del programma esclusivamente in classe, ed eliminando i voti che sono diventati visibili solo in pagella, ma che hanno avuto il merito di non creare competizione, conflittualità, frustrazione e delusioni tra gli studenti più fragili.
Concludo dicendo Professore, che l’autonomia didattica che noi insegnanti possiamo esprimere rigorosamente a porte chiuse, ce la prendiamo spesso solo per isolarci nella nostra ignoranza pedagogica e didattica quando invece potrebbe essere utilizzata per gli studenti, per dar vita e vitalità a una pluralità di realtà umane difficili o non.
È giusta l’informazione per la prevenzione in ogni sua forma e/o aspetto. Perché Voi, in ambito scolastico non formate, ma informate i docenti sulle caratteristiche psichiche dell’essere umano e sulle probabili malattie; la formazione è tutt’altro, e dovrebbe rendere pratica l’applicazione di una metodologia per affrontare le questioni imputate. Quindi paradossalmente, per permettere ai docenti di avere gli strumenti idonei per il loro lavoro creativo e metodologico dovrebbero diventare in un certo modo (grazie anche alla psicoterapia). Ma io sono sicura che tutti i partecipanti al Vostro corso sono, in un certo modo. Ciò che a loro manca è la conoscenza e la pratica didattica, pedagogica, ovvero metodologica di come rendere applicabili i contenuti relazionali di cui hanno conoscenza e sensibilità; e da qui parte, la domanda che le è stata posta.
Se, come dice Massimo Fagioli, la vitalità di un essere umano si accresce nella relazione idonea con l’altro, uno dei rapporti più importanti per i bambini e gli adolescenti sono proprio quelli con i docenti, con i quali passano dalle otto ore della scuola primaria alle sei della scuola secondaria e in questi rapporti possono anche (forse non tutti, ma probabilmente la maggioranza) riappropriarsi di quell’immagine interna vitale che sembra smarrita. Forse allora, se si comprendesse questo, la pedagogia e la didattica non sarebbero più così messe ai margini.
RingraziandoLa per la lunga attenzione che mi ha concesso,
cordialmente saluto»
Lettera scritta dopo la seconda giornata di corso
«Gentile Professore Paolo Fiori Nastro,
la ringrazio per aver risposto alle considerazioni della mia precedente lettera dandone una voce pubblica che però non è stata correttamente interpretata.
Innanzitutto ha scambiato per adulazione un mio pensiero sulla riuscita e la bellezza della teoria di Massimo Fagioli, e questo un po’ mi dispiace. In secondo luogo io non ho mai pensato di sostituirmi a Voi medici per la cura delle malattie mentali. Quello che mi sono limitata a dire è spiegare quanto la pedagogia, ovvero l’educazione, fosse importante in ambito scolastico e quanto i suoi studi scientifici possano essere risolutivi con bambini e ragazzi in difficoltà di studio. Ho sollevato, per intuizione, una necessità della docente che fece la domanda imputata nella prima lettera, interpretando (mi passi il termine) umanamente, quanto quella risposta per noi docenti fosse importante e quanto la stessa non avesse trovato in quell’occasione riscontro concreto. Non a caso, anche nel secondo incontro del corso la domanda è riemersa più volte e con più forza proprio perché la mancanza di risposta ha fatto sentire l’ennesima frustrazione al docente che opera purtroppo senza pedagogia.
Vorrei riuscire a non dilungarmi molto in questa lettera, ma non so se ne sarò capace perché mi sembra di aver intuito che non solo c’è ostilità nei confronti della scienza pedagogica e didattica, ma soprattutto c’è molta non conoscenza che porta ovviamente ad una cattiva interpretazione dei ruoli e delle distinte professionalità. (Tra l’altro il ruolo del pedagogista nel 2017 è stato finalmente riconosciuto dalla Legge 205). Con l’occasione però, mi preme specificare che il pedagogo (termine da Lei utilizzato al corso in riferimento alla mia lettera e di cui io non ho mai fatto cenno) non ha nulla a che vedere con la pedagogista.
Per chiarire questa posizione fondamentale e per comprendere il mio ruolo, vorrei spiegarLe che il termine pedagogia deriva dal greco παιδαγογια («condurre bambini, accompagnamento»), composto da παιδος (paidos: bambino) e αγω (ago: guidare, condurre, accompagnare). Dal primo veniva coniata l’espressione paideia, che indicava il sistema di formazione nell’antica Atene, dal secondo agoghé, in vigore a Sparta. Facendo pertanto riferimento alla radice terminologica, nell’antica Grecia il “pedagogo” era uno schiavo che accompagnava il bambino a scuola o in palestra o a teatro. Dopo che i Romani ebbero conquistato la Grecia, il pedagogo, venne chiamato “Paedagogus” lo schiavo greco che, oltre ad accompagnare i bambini, insegnava loro la lingua greca. Col tempo il significato di “Paedagogus” divenne quello di insegnante. Successivamente già in epoca medioevale il pedagogo era il servo del re che si occupava dell’istruzione dei giovani principi e cortigiani e che limitava l’aspetto educativo alla trasmissione di contenuti primari come “leggere e scrivere”. In seguito il termine “pedagogo” ha assunto il significato di “precettore” invalidando quello di insegnante. La pedagogia, come fino adesso raccontata, per secoli, continuerà a essere considerata la disciplina che organizza gli interventi per la formazione degli adulti fino a quando J.J Rousseau (1712-1778) con L’Emilio mette le basi della prima ricerca pedagogica per la crescita e formazione dei bambini. Pertanto la pedagogia scientifica è una disciplina molto giovane e l’esperto, ovvero colui che studia scientificamente questa disciplina si chiama “pedagogista” e non pedagogo, il quale termine oggi è utilizzato in senso dispregiativo e ironico.
Mi piace ricordare inoltre che la relazione educativa a scuola, ovvero il cardine della pedagogia (per chi avesse compreso che la scuola non è solo nozionismo ma piuttosto formazione e crescita), non è prerogativa del rapporto medico-paziente, ma è una proposta culturale che fa parte concretamente da almeno un secolo, della scienza umanistica. E anche se l’educazione e la scuola esclusivamente come fatti c’erano già prima che vi fosse la pedagogia, non erano però oggetti di scienza. Maria Montessori ha sottolineato e chiarito ampiamente l’importanza di questa disciplina al primo Congresso Pedagogico Nazionale di Torino del 1898 quando affermò dimostrandolo, che i bambini frenastenici (esclusi da scuola, in quanto allora sede esclusiva per i cosiddetti normodotati) avevano bisogno di pedagogia prima ancora che della cura. Voi psichiatri non offrite una proposta “culturale” se ignorate o addirittura escludete la pedagogia, ma vi limitate a promuovere una risoluzione medica nel momento in cui lo studente è già diventato patologico.
Lo studio scientifico pedagogico (ovvero la metodologia educativa migliore per la crescita e la formazione dei giovani) qualora venisse proposto ai docenti, accrescerebbe la loro identità, permettendogli con una pedagogia creativa, con la didattica e la metodologia idonea, anche di superare impasse a livello scolastico; e se mi posso permettere, l’identità del docente così considerata, punterebbe alla prevenzione, non si occuperebbe certo della cura. — Come una collega del corso ha detto, la questione è anche politica e la politica ha ignorato la pedagogia fino a non molto tempo fa, anche e forse soprattutto per interessi economici. Ora per fortuna sembrerebbe non essere più così, anche se è evidente che il cammino per farci accettare sarà ancora molto lungo —.
Senza la relazione educativa (ovvero, senza sapere che poter dire ai propri figli che a tavola il cellulare non è il caso di tenerlo), non ci sarebbe “educazione” (così come l’ho intesa nella prima lettera).
Pertanto non ci sarebbe rapporto educativo tra docente-studente. La scienza pedagogica (grazie anche agli studi psicologici che hanno dimostrato come il pensiero reagisce e si muove alle stimolazioni esterne) si occupa di studiare e diffondere quale rapporto educativo, didattico e metodologico ha la migliore riuscita con i bambini e gli adolescenti, come deve essere interpretato ed espresso dal docente, come deve essere attuato, quali metodologie didattiche sono le vincenti per la riuscita di tutti gli studenti. (Tengo a precisare che, se come docente universitario mi posso permettere di fare uscire dall’aula gli studenti adulti che non seguono, lo stesso comportamento “educativo” non lo posso adottare con bambini e adolescenti). Perché noi docenti, i bambini e gli adolescenti, Professore, non ce li possiamo scegliere quali studenti (come ha bene affermato un’altra docente del corso); ma abbiamo l’obbligo, professionale ed etico, di portarli tutti al traguardo: diversamente sarebbe una nostra sconfitta. Mentre lo stesso “obbligo etico e professionale” non appartiene al docente universitario. Mai però noi pedagogisti (se conosciamo il mestiere e i confini tra difficoltà scolastiche e malattia), ci verrebbe in mente di attuare la cura o addirittura di fare diagnosi (come negli ultimi tempi si tende a chiedere al docente, anziché fornirlo di buone pratiche didattiche e metodologiche per aiutare i propri studenti a studiare al meglio). Se però poi, nella relazione dialogica fondamentale e necessaria per la relazione pedagogica ed educativa, Voi intravedete la cura, allora dovreste dire anche ai genitori di tacere con i propri figli!
Sappiamo bene, grazie a Massimo Fagioli, che il giusto, corretto e sano rapporto è il fondamento della riuscita identitaria e sociale di una essere umano in crescita. Sappiamo bene, grazie a Massimo Fagioli, come una nostra realtà malata distruggerebbe chi ci è stato affidato nel contesto scolastico — come un’altra docente del corso ha ben sollevato, chiedendosi se non fosse più corretto partire dagli adulti per parlare di sanità ed eventualmente di cura —. Sappiamo bene, grazie a Massimo Fagioli, che una relazione sana, anche se non familiare, potrebbe aiutare lo sviluppo psichico del bambino o dell’adolescente a resistere, trovare vitalità e intuizione che “esiste un seno non deludente”.
Perché allora, una giusta relazione e metodologia didattica non dovrebbe appartenere ad una disciplina quale quella pedagogica che studia non per curare, ma per aiutare a crescere nel migliore dei modi l’essere umano? Perché non ci dovremmo muovere per prevenire, anziché aspettare nell’indifferenza dell’impotenza che quella tristezza dell’adolescente o del bambino (dovuta spesso ad una cattiva relazione pedagogica e didattica) si trasformi in depressione? — Tristezza appunto, dovuta il più delle volte al non sentirsi adeguato in classe, all’aver perso o mai costruito (a causa della mancanza di relazione pedagogica adeguata dei docenti) un’autostima sufficiente per imparare a leggere, scrivere e far di conto e che noi docenti, con il nostro atteggiamento di accoglienza o di rifiuto, possiamo aiutare ad accrescere o a distruggere definitivamente —.
Perché dovrei aspettare passiva e mandare avanti solo gli studenti più bravi, scaricando il problema su genitori e medici? Perché dovrei rimanere indifferente alla difficoltà scolastica di uno studente quando ho l’arma pedagogica e didattica-metodologica per sentirmi attiva e permettere a tutti o quasi, di sentirsi appropriati in ambito scolastico?
Gentile Professore, la cultura pedagogica (relazione-didattica-metodo) aiuta concretamente i docenti a svolgere la loro attività; la cultura medica li informa sulle patologie, non dà loro alcun modo di sapere come prevenirle. Lei (grazie a Massimo Fagioli) mi insegna che la prevenzione alle patologie psichiatriche risiede nel modo di essere di genitori e insegnanti sani (però non tutti hanno fatto o pensano di fare psicoterapia “fagioliana” per diventare in un certo modo), per cui se a me docente mi viene “insegnato” come devo pormi nella relazione, cosa devo o non devo dire ad uno studente, quale tipo di didattica è la più opportuna e quale metodo il più idoneo, io posso provare a fare prevenzione a favore degli studenti. Oltre ad innalzare la mia consapevolezza di ciò che sono e di come dovrei essere: questa è pedagogia e formazione!
Massimo Fagioli mi ha insegnato che la conoscenza di come si muove la psiche e pertanto di me stessa, mi è d’aiuto per la ricerca della mia identità professionale. Non a caso mi servo della conoscenza psichiatrica per tracciare i confini, che sono netti (glielo garantisco), con quella pedagogica.
Grazie ancora per l’attenzione che avrà voluto nuovamente dedicarmi,
cordiali saluti»
Detto questo, sostengo l’idea che la psicologia comunque non va negata, esattamente come non va negata la malattia mentale. Ma psicologia e pedagogia vanno distinte. Entrambe hanno a che fare con l’essere umano, ma vivono di una loro specificità non sovrapponibile.
Lo psicologo cura o assiste a seconda del suo profilo accademico (con 5 anni di psicologia, può fare solo assistenza, con altri 4 anni per diventare psicoterapeuta, può attuare la cura); il pedagogista invece permette la crescita delle potenzialità dell’essere umano (dalla nascita al fine vita) aiutandolo a svilupparle attraverso una corretta relazione, un corretto metodo didattico, ludico, sociale ed educativo, propri del pedagogista.
Come attuare la prevenzione alle malattie psicologiche in una scuola i cui docenti rimangono rigidi su vecchi schemi precostituiti e perché hanno interesse a mantenerli.
Una verità scomoda.
È la terza giornata del corso di formazione riconosciuto dal MIUR in cui si parla della conoscenza della forma di disagio degli studenti per prevenire gli abbandoni scolastici.
Un clima strano si respira. Almeno, io così lo percepisco. Girano voci di chi dice che ciò che fino a questo momento è stato detto non ha apportato nulla di nuovo per la nostra attività di docenti: “erano cose che già si sapevano”. Non mi stupisce, questa sensazione la provo anch’io. Siamo docenti che abbiamo seguito Massimo Fagioli per anni. Conosciamo la sua teoria. Ma il lavoro del docente non è quello dello psicoterapeuta: ogni professione ha la sua identità e a un corso per docenti, ci si aspetta di conoscere quel qualcosa in più che ci possa aiutare nella nostra attività. Altrimenti perché spendere soldi e tempo con la partecipazione?
Noi insegnanti abbiamo la nostra identità, che non è un miscuglio indefinito tra la cura e l’educazione, ma è educazione e basta. La cura c’è nel momento in cui esiste una malattia ed è compito del medico.
Ma partiamo dal presupposto per eccellenza: come si ammala il pensiero, ovvero come molti bambini sviluppano difficoltà cognitive e comportamentali che i medici chiamano disfunzionali (dislessia, discalculia, ADHD); ma anche e soprattutto poi in adolescenza, come si ammala il pensiero causando attacchi di panico, ansia, depressione ecc.
La teoria della nascita di Massimo Fagioli (psichiatra), spiega come il pensiero nasce dalla trasformazione della realtà biologica in quella psichica, e come nella relazione con gli altri il pensiero possa eventualmente ammalarsi. Parlo pertanto non dell’organo cervello, genetica o neurobiologia (come spesso si sente dire in riferimento alle difficoltà nella didattica) ma dell’immagine interna e quindi del pensiero del bambino, che deve trovare sempre più vitalità fin dai primissimi giorni di vita nella relazione con l’adulto che gli permetterà (o meno) di sviluppare un pensiero sano con un’attività cognitiva adeguata al suo sviluppo.
La realtà scolastica di tutti i giorni ci dice che dentro la mente dei nostri bambini e adolescenti, negli ultimi tempi, si cerca sempre di più la malattia. Ogni incapacità del docente (didattica-relazionale-metodologica), viene fatta passare per malattia del bambino.
Tutto questo avviene perché i docenti si deresponsabilizzano completamente, e la deresponsabilizzazione impedirebbe loro di sentirsi falliti, li assolverebbe e soprattutto li assolvono gli altri da ogni cosa: dalla prestazione, dalla impreparazione, in poche parole dalla professione; e il più delle volte anche dalla inadeguatezza umana per il compito straordinariamente importante che andiamo a svolgere.
L’identità del docente emerge quando è cosciente di ciò che può fare e lo fa. Fintanto che nei docenti non c’è coscienza o consapevolezza di ciò che sono e che possono fare (o se ne approfittano pur avendola), si posso assolvere scaricando la problematica al genitore prima e al medico poi. E questo li fa sentire leggeri. Come quando qualche genitore mi ha detto che il bambino certificato e assistito in classe si sente meglio. Certo che si sente meglio: non gli si chiede più di lavorare, lo si giustifica su ogni circostanza, il docente non richiama più la sua attenzione, gli mette voti non meritati ma che, “poverino, come posso non darglieli!”. Chiunque si sentirebbe meglio. Peccato solo che a quel bambino non è più riconosciuta la possibilità e l’opportunità di sviluppare al meglio le sue potenzialità psichiche e cognitive che avrebbe, ma che la certificazione gli toglie. Speriamo che prima o poi ci sarà una consapevolezza collettiva nel chiedersi cosa sarà di lui una volta uomo o donna.
E difatti a questo corso si è parlato giustamente di identità dell’essere umano, e di come le varie culture atee piuttosto che credenti attribuiscono prima o dopo una identità alla persona, cioè quando effettivamente l’essere umano diventa persona e da adulto poi professionista. Personalmente già da molti anni ho dato credito alla teoria di Massimo Fagioli per il quale l’identità della persona umana si forma alla nascita con la trasformazione del biologico allo psichico e non al concepimento come ad esempio afferma la Chiesa cattolica.
È difficile spiegarvi come la mia identità professionale derivi dalla consapevolezza e dalla formazione che Massimo Fagioli mi ha trasmesso, di come l’identità umana prenda forma attraverso lo sviluppo del primo pensiero, teorizzato e poi scientificamente provato da Massimo Fagioli stesso, con l’aiuto di neonatologi e fisici. Di come poi successivamente, da adulti, quel pensiero, se sano, se attivo, se rispondente a stimoli affettivi ed emozionali porti inevitabilmente alla formazione della propria identità professionale sana e matura.
Da tutto questo ovviamente — per me professionista della pedagogia —, l’impossibilità assoluta di utilizzare la parola cura con i miei studenti e meno che mai con i genitori. I pedagogisti o gli insegnanti non curano, mai! E dal mio punto di vista, nemmeno si prendono cura, perché ciò implicherebbe ancora una volta una deresponsabilizzazione nei confronti del bambino e dell’adolescente, per cui per aiutarli a maturare in ogni fase evolutiva della crescita psichica e cognitiva negli ambiti accademici, non mi è permesso prendermi cura, ma affrontare con loro uno stimolo costante, fondato sulla stima e la fiducia nelle loro potenzialità, sul fare e saper attendere allo stesso momento, spronando, guidando instancabilmente fino all’obiettivo; privo di pregiudizio, privo di compassione e compatimento che tolgono anziché dare, ma consapevole da dove gli studenti partono ognuno con la propria individualità e cosa possono raggiungere.
I genitori, i familiari in genere invece, si prenderanno cura dei loro figli, avranno compassione per loro, li coccoleranno teneramente.
Pertanto, medici, pedagogisti/insegnanti e genitori, hanno ruoli nettamente distinti e separati. Il medico cura; i docenti educano (nel senso di tirar fuori)/insegnano nella relazione umana e con la didattica e il metodo; i genitori si prendono cura dei propri figli e li educano nel senso di passare loro i propri valori familiari/culturali.
Ma facciamo un passo indietro. Abbiamo detto che la teoria di Massimo Fagioli ci dimostra scientificamente e con le prove, come la malattia mentale insorga e come si cura. Lui afferma che il bambino nasce sano e poi si ammala nella relazione con l’adulto significativo, in particolar modo con la madre. Per essere ancora sintetici ma espliciti: una madre (o adulto significativo) che è anaffettiva, violenta fisicamente o psicologicamente, seppur ineccepibile nelle cure materiali nei confronti del figlio, crescerà un figlio malato o con grossissime possibilità che lo diventi. Questo significa che la malattia mentale mette radici nella relazione anaffettiva e priva di emozioni con l’adulto significativo fin dalla nascita. Poi, altre difficoltà di relazione o semplicemente inadeguatezze possono comunque essere causa di rallentamenti e difficoltà in ambito scolastico (ad esempio, una famiglia che ha, nei confronti del proprio figlio, un’aspettativa di rendimento eccessiva, può essere l’ostacolo al buon andamento scolastico, come anche sgridare il proprio figlio per ogni errore commesso o fare cattive separazioni quando si manda a scuola, può essere causa di difficoltà cognitive).
Se io ho, come pedagogista/docente, la conoscenza di come il pensiero si sviluppa e si costruisce e anche come si può ammalare, ho dalla mia parte le armi fondamentali per compiere al meglio il mio lavoro facendo prevenzione alla malattia psichiatrica e alle difficoltà cognitive, in quanto il docente a partire dal nido diventa una delle figure di riferimento fondamentali, fosse solo per la quantità di ore che passa a contatto con il bambino prima e l’adolescente poi.
L’argomento di questa giornata difatti, è stato quello del concetto di “prevenzione” delle malattie psichiatriche, che ovviamente, per non incorrere in confusione, richiede la consapevolezza della differenza tra educazione e cura. Quindi la consapevolezza della propria identità professionale.
Il dr. Riccardo Saba (psichiatra e psicoterapeuta) ci spiega che ci sono, per gli insegnanti, due livelli di prevenzione: primo e secondo. Il secondo è quando — intuito che un ragazzo potrebbe avere i sintomi di una psicopatologia —, riusciamo a farlo arrivare al servizio psichiatrico o psicologico per la cura, e su questo, nulla da eccepire. Il primo, sostiene il Dottore, è nell’individuare i fattori di rischio con la conoscenza di cosa porta il ragazzo alla depressione piuttosto che agli attacchi di panico o a situazioni d’ansia. Ma io aggiungerei, anche se il Dottore non lo ha detto (probabilmente ipotizzando che fosse scontato), che il primo livello di prevenzione dovrebbe riguardare la salute mentale del docente, dato che la malattia insorge nella relazione con l’adulto significativo e pertanto, se con un genitore malato ho una grossa probabilità di diventarlo anch’io, perché, dato che il docente corrisponde ad un adulto significativo, non dovrebbe lui stesso essere ugualmente un fattore di rischio? —
Puntualizzo che, i medici di questo corso, hanno posto l’accento sugli adolescenti in quanto una patologia psichiatrica conclamata prima dell’adolescenza, non può essere curata con la prassi utilizzata come per l’adolescente o l’adulto (ovvero con l’interpretazione del sogno).
E se questo è vero, come io sento vero per esperienza diretta e indiretta, una buona prassi relazionale come quella pedagogica, è uno dei punti cardine per fare prevenzione.
Se il rapporto è il cardine della salute psichica e il docente è un adulto significativo in grado di influenzare positivamente o negativamente sullo sviluppo del pensiero del bambino, è possibile, con la conoscenza e la consapevolezza pedagogica, fare molta prevenzione per sostenere le prime difficoltà scolastiche di un bambino. Senza ovviamente negare la possibilità che lo stesso bambino — seppur nella sua vita ha avuto docenti capaci e consapevoli del loro ruolo e della loro identità, capaci anche di far recuperare cognitivamente delle carenze incontrate nel percorso di studi —, poi non possa comunque ammalarsi, e quindi, arrivato all’età dell’adolescenza, non debba rivolgersi allo psichiatra o psicologo per la cura.
Pertanto la prevenzione primaria, oltre ad essere insita nel benessere psicologico dell’insegnante, dovrebbe, secondo il dr. Saba, affondare le sue radici nella consapevolezza dei fattori di rischio, cioè di quelle pratiche scorrette comportamentali che portano lo studente ad ammalarsi.
Nonostante la spiegazione della prevenzione attraverso i fattori primari e secondari, molti docenti del corso continuano però a ripetere come un mantra la stessa domanda e la stessa affermazione “noi cosa possiamo fare?”, “noi ci sentiamo impotenti”. E dire che il problema l’avevo sollevato fin dalla prima giornata! Ma si continua a negare la pedagogia come forma di movimento relazionale-didattico-metodologico di ciò che il docente può fare (in maniera preventiva e senza alcun atto di cura) per non sentire quel senso di impotenza.
E quel fare pedagogico si chiama appunto, se vogliamo, “prevenzione”; come quando ai ragazzi gli si insegna a fare la differenziata per prevenire l’inquinamento (gli si insegna cosa sia l’etica e il rispetto per la natura oltre che come concretamente prevenire l’inquinamento differenziando il materiale di scarto); oppure gli si insegna a mangiar sano spiegandogli anche la composizione del cibo e l’effetto che quelle composizioni hanno sul corpo, ad esempio per prevenire l’obesità.
Questi tipi di prevenzione possono essere portati avanti dai docenti o da persone esperte nel settore, ma poi devono anche necessariamente essere portate avanti nella quotidianità (come ad esempio la differenziata in classe o una mensa che non propone cibo spazzatura), altrimenti il corso di formazione per prevenire non è servito a nulla.
La formazione alla prevenzione delle malattie psichiatriche o ad esempio la prevenzione all’ambiente, ha diverse modalità attuative?
La modalità di prevenzione all’insorgenza delle malattie psichiatriche è differente da quello ambientale perché, mentre nel realizzare la differenziata sono i bambini a dover fare ciò che hanno imparato, nella prevenzione alle malattie psichiatriche sono i docenti a doversi mettere in discussione con il loro modo di essere e di agire. La relazione parte da loro esattamente come la didattica. I bambini e gli adolescenti si muovono in base al movimento psichico e fisico dei docenti. Questo movimento corretto e propositivo è frutto del modo di essere personale del docente e della conoscenza della pedagogia (ovvero, la giusta relazione-didattica-metodo).
Noi docenti, per etica, dobbiamo lavorare alla prevenzione con le competenze pedagogiche e didattiche, nonché consapevoli di come i nostri atteggiamenti, le nostre parole, la nostra prassi metodologica e didattica siano il fondamento per il contrasto all’insorgenza della malattia mentale o comunque di tutte quelle difficoltà oggi definite come disturbi dell’apprendimento tipiche della prima e seconda infanzia che, per esperienza personale e sul campo, ho ampiamente dimostrato essere superabili con la pedagogia, il metodo e la didattica adeguati. Questo fatto induce a pensare che i cosiddetti disturbi dell’apprendimento (dislessia, discalculia ecc) non sono patologie mediche (ameno nel 99% dei casi) e possono essere superate con una buona relazione e didattica, ovvero con una buona pedagogia.
La domanda allora è: perché quando si propone ai docenti di fare concretamente prevenzione con la pedagogia, unico strumento disponibile, il pubblico docente non risponde e se lo fa, attacca la pedagogia? E perché quello medico sostiene l’impossibilità di una prevenzione pedagogica a favore semplicemente della conoscenza dei fattori di rischio?
I voti a scuola legittimano frustrazioni, aggressioni e incompetenza del docente
Torniamo al corso e al perché della negazione della sostanza pedagogica.
Il tutto parte da un mio intervento. Al solito. Il loro dire medico era carente, a mio giudizio, dal punto di vista della prevenzione pedagogica, così dissi:
“Considerando che l’insegnante è un adulto significativo per lo studente in quanto vive con lo stesso per molte ore al giorno nella settimana, e pertanto ha un’influenza fondamentale per lo sviluppo cognitivo e metacognitivo, è possibile pensare alla prevenzione attuando una metodologia scolastica come ad esempio mettere i voti solo in pagella e non renderli pubblici agli studenti e alla famiglia durante l’anno? Così facendo si eviterebbero tra gli studenti, competizioni, rivalità, ostruzionismi, litigi, ripicche, rabbia, oltre che, in famiglia discussioni, insulti, punizioni, violenze psichiche e fisiche; tutte cose queste che portano a stress, alterazioni dell’immagine interna e pertanto conseguenze sullo sviluppo cognitivo del pensiero, attacchi di panico che sono una risposta basata sulla paura*, ansia, demoralizzazione per chi prende voti bassi a confronto degli altri, ecc.”
La risposta del Dr. Saba è stata incerta all’inizio, poi positiva, sostenendo che la domanda fosse bellissima e che lui personalmente non ha mai amato i voti; ma letteralmente sovrastata da una valanga di proteste del pubblico docente che si opponeva a questa ipotesi, creando imbarazzo anche nel Dottore che forse non si aspettava quella reazione.
Meno che mai me l’aspettavo io. Addirittura una collega si è fatta avanti dichiarandosi vicepreside (come se esserlo avesse più valore o conoscenza o consapevolezza di una “semplice” docente”), appoggiando l’idea che non fosse vero che gli studenti hanno tali reazioni (come se i suicidi per voti negativi non fossero mai avvenuti!) e che l’unica prevenzione possibile fosse appunto quella conoscitiva della sintomatologia proposta dagli psichiatri. Per poi finire però ovviamente, senza neanche rendersene conto, facendo di nuovo quella stessa domanda a cui la psichiatria non può dare risposta: “Come possiamo non sentirci impotenti davanti a ciò che vediamo?”
Allora mi sono chiesta cosa impedisse a questa docente, come a tante altre, di non sentirsi disposta ad accettare la messa in discussione del voto; perché non accettasse l’ipotesi che non mettere i voti potesse aiutare a prevenire un malessere molto diffuso tra gli studenti e i loro genitori. Ma anche il fatto che, non mettere voti, è un concreto atto preventivo che può esercitare l’insegnante e solo l’insegnante, tanto per rispondere alla domanda “noi come possiamo non sentirci impotenti”…
La risposta temo sia sempre la stessa: la negazione della pedagogia (la scelta di non mettere i voti è un atto pedagogico).
La pedagogia, ovvero la scienza per eccellenza dello studio dell’educazione è l’unica possibilità che abbiamo per studiare cosa non funziona nel nostro comportamento, prassi, metodologia come insegnanti ed educatori.
Poi, proprio perché non mi rassegno, mi era venuta l’idea che potesse essere utile fare un progetto di ricerca a scuola proprio sulla negatività (a mio giudizio) del voto e, insieme alla collega Antonella Manfredi, abbiamo fatto un po’ di indagini nel web, fino a scoprire che a settembre 2018, quindi in questo preciso anno scolastico, dei pedagogisti dell’Università di Urbino, grazie a un docente intelligente, avevano già messo in piedi una tale sperimentazione.
Ma quali sono le ipotetiche motivazioni che soggiaciono alla negazione della pedagogia?
Ho ipotizzato alcune motivazioni anche facendo riferimento alla mia esperienza personale e al mio sentire, oltre che all’esperienza e al sentire che negli anni di lavoro come docente i colleghi mi avevano più volte espresso.
Una motivazione: la deresponsabilizzazione.
Tra le più evidenti ci sono il fatto che è più facile seguire corsi informativi, che ti spiegano il lavoro degli altri e ti lasciano ai margini del “fare” ritornando imperterriti alla deresponsabilizzazione.
Mentre un buon corso di aggiornamento è quello che ti fornisce gli strumenti per cambiare il tuo modo di essere e per facilitare il proprio lavoro in maniera costruttiva. Un corso che non ti fornisce questi strumenti lascia semplicemente la conoscenza rassicurante della nostra impotenza.
Personalmente, nella mia attività, ho sempre combattuto l’idea di impotenza con lo studio continuo, l’approfondimento e la messa in discussione di ciò che faccio, sempre. Perché l’attività se mi proponesse frustrazioni non risolvibili mi porterebbe scoramento, scoraggiamento, senso di impotenza appunto, tristezza, ma soprattutto demotivazione al lavoro.
Un’altra motivazione: come ci fa sentire il voto.
Il lavoro del docente è molto particolare. Esso dona un senso di potenza enorme nel mettere in atto percorsi formativi vincenti e che portano tutti gli studenti al traguardo, che ti fanno sentire di poter essere in grado di far crescere cognitivamente gli studenti, di guardarli cambiare, evolvere, diventare più sapienti e bravi nel leggere, nel parlare, nel relazionarsi e nell’interagire con gli altri. Ed è un senso di piacere immenso che per mia fortuna ho provato moltissime volte e che mi sprona a continuare la ricerca per migliorare me stessa e la mia didattica.
Ma allo stesso modo ci può essere il docente che prova potere nell’avere esseri umani da sottomettere perché li considera inferiori a lui, privi appunto di conoscenza e soprattutto che devono sottostare alla sue volontà come se avessero davanti degli oggetti da plasmare, ma soprattutto delle scatole vuote da riempire prive di emozioni, sentimenti, in una parola privi di vita.
Vi sono però anche vie di mezzo tra queste due grandi e specifiche categorie di docenti tra l’estremo positivo e l’estremo negativo, che probabilmente sono la maggioranza. (Detto questo, vorrei sottolineare e chiarire che non mi permetterei mai di avanzare alcuna ipotesi di come sono i docenti che hanno partecipato al corso).
Quello che mi preme sottolineare è come il voto eserciti una ricaduta di controllo e pertanto di potere alla quale spesso il docente non vuole e/o non può rinunciare. Docenti che hanno bisognoso di esprimere il proprio sentire e le proprie frustrazioni personali a vario livello, lo faranno anche, e forse soprattutto, con il voto. È il loro atto di forza, di condizionamento, spesso di ricatto, di controllo, a volte è persecutorio, a volte liberatorio, ma comunque fatto su un sentire personalissimo che implica un movimento interno non controllabile e non valutabile del docente. È un mezzo che utilizza per far valere la propria voce quando si sente di non averne, per rendere spesso purtroppo dipendenti, passivi e marionette, gli studenti. Per condizionare e tenere in pugno la famiglia.
Se ai docente togliamo quest’arma molti di loro si sentirebbero persi e inascoltati.
Il giudizio numerico comporta per il docente una totale mancanza di consapevolezza di chi è lo studente e delle possibilità che ha di esprimersi. I voti sono una valutazione quantitativa priva di ogni garanzia di obiettività e facilissima da esprimere. Il “numero” viene messo in base a una classifica di rispose giuste e nozionisticamente corrette che esclude la fatica del docente di individuare le carenze cognitive e i bisogni di approfondimento soggettivo dello studente: su 10 domande ne ha risposte 3? Il voto è 4. Ma se quelle tre sono giuste, seppur fatte ragionando lentamente e con difficoltà, per il docente che mette 4 non ha nessuna valenza; ma soprattutto non ha alcuna conoscenza vera dello studente.
Gli insegnanti che si muovono in questo modo non capiscono il danno che provocano nel pensiero dell’allievo e quindi nel suo sviluppo cognitivo. Proverò ad accennarlo.
Innanzitutto immensa frustrazione per lo studente nel pensare di averci messo tutto se stesso e di aver fatto bene (ameno una parte), ma non in modo sufficiente perché il docente si accorgesse e riconoscesse i suoi progressi a livello cognitivo e metacognitivo. La frustrazione che ne consegue nei bambini provoca demotivazione e disistima di sé.
Poi rivalità tra gli studenti: tra quelli cioè che hanno fatto più errori di lui, ma hanno risposto a più domande e pertanto hanno preso un voto più alto. Il sentimento sarà anche di odio verso il docente, che può trasformarsi poi in rabbia; sentimento anche questo, profondamente deleterio per lo sviluppo del pensiero.
La frustrazione però è anche della famiglia. Perché nonostante il proprio figlio abbia raggiunto un buon risultato nella conoscenza (magari grazie all’appoggio di un docente esterno), non ne ha abbastanza in velocità per finire il compito e avere un voto positivo tanto agognato per la promozione. Tutto questo può comportare urli feroci da parte del genitore (che spesso pensa solo ai soldi spesi per il recupero) e che lasciano profonde cicatrici nel pensiero e nell’attività scolastica dell’allievo. Poi provocano rabbia, sempre del genitore, da scagliarsi il prima possibile contro quel docente il quale, con enorme “potere” agisce sulla vita psichica del figlio e di tutta la famiglia.
Vogliamo poi accennare a quei genitori che puntano la loro vanità solo sui figli primi della classe? Vogliamo parlare di quei genitori che vorrebbero essere loro a giudicare il sapere e la formazione scolastica dei figli, per cui ogni voto messo è una discussione, una polemica, un rinfocolare la rabbia e la disistima dei propri bambini e adolescenti?
L’assenza di voto invece renderebbe tutti liberi dal giudizio, dall’oppressione, dalla discriminazione e dalla competizione. Un docente libero di pensare e capire i suoi studenti è libero di aiutarli a crescere senza convenzioni, ostruzionismi, senza ricatti o provocazione all’odio. Ma un docente così sa mettersi in discussione. Sa chiedersi se uno studente che non rende è causa sua. Sa chiedersi come affrontarlo e come pensare di migliorare quel rendimento.
Il voto in pagella poi, ci sarebbe comunque, quello che fa la differenza è come vivono studenti e genitori la scuola durante l’anno.
Sostituire il voto con la descrizione dello studente e del suo andamento, è l’unica modalità per far crescere serenamente gli alunni… e perché no, anche le famiglie.
Noi docenti dobbiamo imparare che la messa in discussione delle nostre azioni si chiama Pedagogia, non certo fallimento ed è, a mio avviso, un obbligo professionale. La vittoria della pedagogia sta proprio in quel docente che umilmente riesce a mettere in discussione il suo operato, senza farlo ricadere sullo scolaro attraverso un numero negativo ogni volta che quella metodologia o quella didattica, con quello specifico studente, non funziona.
Teniamo presente però che anche la politica ha una grande responsabilità, forse maggioritaria in quanto è lei ad aver fatto la scelta politica di mettere i voti a tutte le scuole di ogni ordine e grado, anche se l’obbligo comunque rimane solo di metterli in pagella.
È evidente che se di una cosa si può fare a meno significa che essa non è importante.
Bisogna smetterla con l’idea gentiliana secondo la quale per insegnare una materia sia sufficiente conoscerla. Ignorando la specificità umana dello studente diviene una impostazione inevitabilmente anti-psicologica (umana) e perciò anti-educativa. L’educazione per essere apprendimento, come di fatto lo è, si deve chiedere quali sono gli interessi e le abilità dello studente, quali le sue strade per l’apprendimento, ma soprattutto quali fattori oltre quelli intellettuali hanno peso nel processo di apprendimento. Ma anche quali sono le condizioni favorevoli all’apprendimento, quali materiai e metodi occorre impiegare affinché si svolga nel modo più proficuo. Come nasce e cresce una bambino sano.
La scuola non è una prerogativa medica, psichiatrica, né è possibile che la formazione psichiatrica cambi le regole del gioco che sono pedagogiche, didattiche, metodologiche.
La nuova scuola dovrebbe essere fondata sulla pedagogia intesa in senso dinamico, una competenza come quella del pedagogista data da un insieme di studi di materie umanistiche (oltre a quelle pedagogiche) ovvero psicologiche, antropologiche, sociologiche, storiche e filosofiche, che hanno una precisa finalità: quella della crescita sana dell’essere umano attuabile solo con il giusto approccio pedagogico.
Non può essere la cura la soluzione per una buona scuola; ma la pedagogia può e deve essere la prevenzione per un’ottima scuola.
Conclusioni
Vorrei concludere ribadendo ancora una volta una questione fondamentale.
Come non trovo corretto negare la pedagogia, non è assolutamente accettabile negare la psicologia (cura del pensiero attraverso la psicoterapia) o la psichiatria (cura del pensiero attraverso la psicoterapia e i farmaci).
Esattamente come i bambini nascono sani e si spera crescano nella salute con una buona relazione pedagogica, ci sono bambini che nascendo sani, si ammalano nelle relazioni non corrette e/o malate con gli adulti significativi. La malattia però esordisce prevalentemente nell’età dell’adolescenza e da questa età si può curare con la psicoterapia.
Una buona pedagogia familiare e scolastica fin dalla nascita del bambino invece, può compensare le difficoltà di relazione con la famiglia e nello studio poi, attuando quei meccanismi preventivi all’insorgenza della patologia psichiatrica.
Dr.ssa Tiziana Cristofari
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*Riporto la dicitura così come comparsa sulla slide al corso.
Psicopedagogia e neuropedagogia sono solo un’illusione
Nuove verità scientifiche sui disturbi dell’apprendimento
Pedagogia e psicologia: la vera prevenzione a scuola per gli abbandoni scolastici sta nel modo di essere del docente. Pertanto è insita nello studio e conoscenza della pedagogia, della didattica e del metodo, oltre che, si spera, della salute mentale del docente. La pedagogia non è la psicologia, ma sicuramente si nutre di essa.