La parola è interesse nei confronti del rapporto umano, interesse per la realizzazione dell’altro. Comincia tutto da qui, dall’interesse che ho provato e provo per i miei studenti e per la loro realizzazione individuale.
Poi viene l’affettività che è un segno evidente dell’interesse.
Mi sono chiesta se un insegnante potesse avere interesse per tutti, ma proprio tutti i suoi studenti. E la risposta è sì. Lo può avere. Anzi no, lo deve avere. Perché quell’interesse, quell’affettività umana fa la differenza tra chi apprende e chi potrebbe sviluppare delle difficoltà.
Massimo Fagioli ha spiegato molto bene come si forma il sentire psichico e affettivo umano del bambino alla nascita[1]. Massimo ha spiegato molto bene come il bambino e l’adulto poi, continui tutta la vita la ricerca di quel sentire umano (quell’interesse, quell’affettività) che fa la differenza nei rapporti… che fa la differenza nell’apprendimento, ovvero paleserà se e come il bambino avrà appreso.
Inutile negarlo, nella pedagogia dinamica c’è la risoluzione delle difficoltà scolastiche, c’è la soluzione ai “disturbi[2]” dell’apprendimento, c’è la riuscita evidente che contrasta quanto la società afferma dell’impossibilità di superare alcuni “disturbi” dell’apprendimento scolastico (discalculia, dislessia). Che invece sono superabili! E lo sono con una prassi di rapporto pedagogico e della didattica ben precisi, che consentono il raggiungimento degli obiettivi anche se lo studente ha inizialmente delle difficoltà. E sono superabili nell’istante in cui il pedagogista o l’insegnante non attua quel pensiero orrendo di “prendersi cura” dello studente, ma si rende consapevole che c’è una potenzialità in ogni bambino che bisogna permettergli di sviluppare.
Ebbene sì, nel “non prendendosi cura”, ma stimolando il bambino a sviluppare le potenzialità, sta l’identità dell’insegnante, del pedagogista, di colui che forma, di colui o colei che avendo realizzato la propria identità professionale permette all’altro essere umano di realizzarsi.
C’è troppo spesso nella scuola l’idea dell’assistenza, appunto del “prendersi cura” per chi dimostra delle difficoltà. Questi studenti, nel pensiero collettivo psicologico e pedagogico, vanno consolati, tollerati, vanno considerati come pietosamente incapaci e quindi, assecondati nella loro incapacità, incoraggiati a pensare di non essere capaci di pensare, di costruire il loro futuro, di imparare, di diventare liberi nel pensiero e nel corpo. Non ci si rende conto però, che con questo orribile pensiero e atteggiamento nei loro confronti, si propone la totale indifferenza e negazione verso questi studenti, si propone disinteresse e anaffettività. Un simile atteggiamento indica un abbandono dello sviluppo di tutte quelle potenzialità non espresse e ancora non coltivate, ma esistenti nel bambino. Il pensiero profondo di questi insegnanti è: a me non interessa che tu possa fare anche solo un piccolo progresso se solo io avessi il coraggio e la voglia e la preparazione di modificare il mio rapporto e la mia didattica con te. Se il medico dice che non ce la puoi fare, io lo assecondo e così facendo dimostrerò a tutti che il medico (pur non conoscendo nulla di pedagogia e didattica) aveva ragione (Effetto Pigmalione). “Non c’è possibilità di riscattarli dalla loro condizione (impreparazione), è il concetto dell’elemosina…”[3]
L’identità di una pedagogista, ovvero di colei o colui che ha dedicato, dedica, la propria realtà professionale al raggiungimento del migliore sviluppo fisico e mentale dei bambini (quindi anche e soprattutto scolastico), si vede nella capacità di andare oltre ciò che è dato da una società a volte poco attenta alle richieste delle nuove generazioni. Se ci limitassimo ad accettare le difficoltà degli studenti come un dato acquisito perché innato (come vogliono farci credere), allora la pedagogia e la didattica non avrebbero motivo di esistere, se non per qualche studente “che può considerare la laurea una specie di diploma di famiglia, trasmissibile di padre in figlio, come ornamento decorativo di una agiatezza che lo assiste e lo accompagna fin dalla culla, e che lo aiuta a spianargli tutti gli ostacoli, compreso il difetto di vocazione e perfino quello di intelligenza[4]”.
L’insegnamento non è trasmettere un sapere. Insegnare, che comprende lo stare una giornata intera con i bambini, significa permettergli di crescere ampliando le loro potenzialità e le loro possibilità umane prima ancora che dei saperi, e questa è pedagogia. Chiunque può, in qualsiasi momento, formarsi delle proprie competenze in un qualunque settore specifico senza l’aiuto del docente e a qualsiasi età. Ciò che il bambino invece non può fare da solo, ma che necessita di una relazione pedagogica, è la capacità di sperimentare piacere in ciò che fa, di provare interesse. L’apprendimento passivo, indifferente e anaffettivo non permette agli studenti di provare piacere nello studio, di provare interesse per l’altro essere umano, di sviluppare un’esigenza del sapere, l’unica che gli permetterà di continuare gli studi quando potrà scegliere di farlo. Senza questo approccio lo studente non va avanti o lo farà a fatica e sperimenterà molto probabilmente disinteresse e difficoltà di apprendimento.
La nostra riuscita (quella di un insegnante con una vera identità di insegnante, quindi una vera identità pedagogica) sta nel permettere la realizzazione cognitiva in ogni suo aspetto (emotivo, affettivo, umano tra pari e con il docente, e pertanto conseguentemente anche scolastico, ovvero legato all’apprendimento delle discipline) di ogni singolo bambino, nessuno escluso, e questo è interesse per l’altro. “[…] Noi abbiamo un’identità nella misura in cui la diamo agli altri: nel momento in cui riconosciamo che in fondo, nonostante le differenze sociali, economiche e di sviluppo, anche mentale, c’è un’uguaglianza di fondo tra gli esseri umani[5]”.
Dr.ssa Tiziana Cristofari
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[1]Massimo Fagioli (psichiatra), Istinto di morte e conoscenza (1996).
[2]La parola “disturbo” la trovate tra virgolette per il semplice fatto che la dislessia, la discalculia, la disortografia e altro legato all’attività scolastica, le reputo solo ed unicamente delle difficoltà superabili con una corretta relazione pedagogica e di attività didattica.
[3]Massimo Fagioli, Il sogno della farfalla (1998). Corsivo mio.
[4]Piero Calamandrei, Per la scuola (2008).
[5]Massimo Fagioli, Il sogno della farfalla (1998).
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Un titolo e un contenuto sicuramente contro tendenza, dato che libri e manuali sull’argomento parlano solo di come riconoscere i disturbi dell’apprendimento e quali sono gli strumenti dispensativi e/o compensativi per sostenere una realtà che, secondo la maggioranza della comunità scientifica, non ha soluzione in quanto i disturbi sarebbero causati da fattori genetici o neurobiologici.
Nel mio libro affronto scientificamente tutti questi argomenti e li smonto uno per uno dimostrando come sia improbabile quanto viene affermato. Ma soprattutto spiegando perché la comunità scientifica non ha ancora compreso o voluto comprendere, che questi “disturbi” mettono radici lì dove la scuola e la famiglia crescono figli e studenti senza una pedagogia adeguata.
Descrizione del libro. È intelligentissimo, ma il maestro mi dice che non ascolta. Legge stentatamente e la maestra mi ha detto che potrebbe essere dislessica. Non ricorda le tabelline e mi hanno detto che potrebbe essere discalculico. Mi hanno consigliato il logopedista. Mi hanno detto che dovrei portare mia figlia a fare una visita dalla neuropsichiatra infantile. Poi ho letto un suo articolo… Poi cercando su internet il significato di queste parole mi sono imbattuta nel suo sito… È con le stesse parole che un papà arriva da una pedagogista che ha trovato la soluzione ai disturbi specifici dell’apprendimento. Inizialmente scettico, ma speranzoso – perché sua figlia, presunta dislessica, ha difficoltà relazionali con lui e un calo del rendimento scolastico -, s’imbatte in un’avventura scientifica, realistica e umana senza precedenti. Andrà alla scoperta del pensiero di medici e pedagogisti di fama mondiale che gli spiegheranno perché quello che comunemente si racconta sui disturbi dell’apprendimento non è realistico, trovandosi così involontariamente alla ricerca di una conoscenza genetica, neurobiologica, psicologica e soprattutto pedagogica di cui era profondamente allo scuro come del resto buona parte della comunità scientifica ed educativa. Riuscirà in questo modo a capire come nascono, come si prevengono e come si superano i disturbi dell’apprendimento. Ma soprattutto imparerà come è possibile evitarli con l’applicazione di una scienza che nel tempo è stata annullata dalla politica e negata nella formazione dei nuovi docenti: la scienza pedagogica.
Oggi il 25% dei bambini di una classe viene diagnosticato con un disturbo dell’apprendimento. Dicono che il problema è genetico o neurobiologico e per questo non si può far nulla se non dispensare e/o compensare. E se così non fosse?
La dottoressa Tiziana Cristofari pedagogista e docente, con l’aiuto tratto da teorie e prassi di eminenti e riconosciuti studiosi in pedagogia, psicologia e psichiatria – tra i quali Giovanni Genovesi, Shinichi Suzuki, Howard Gardner, Lev Semënovič Vygotskij, Massimo Fagioli -, ha dimostrato come sia ampiamente improbabile che i disturbi specifici dell’apprendimento abbiano origine genetica o neurobiologica e come invece siano il frutto dell’assenza totale di pedagogia scolastica e familiare.
Codice ISBN: 9791220015424