La incontrai la prima volta un giorno di novembre triste e piovigginoso. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, grosse difficoltà nell’ascolto e rispondeva alle domande con le prime risposte che le venivano in mente: aveva 9 anni, il suo nome era Rosita.
Leggeva a stento e ancora sillabando, non riusciva a capire ciò che leggeva e se doveva comporre una frase non era mai attinente alla richiesta.
Nel primo incontro tentai di chiederle di lei. Avevo bisogno di capire cosa stava succedendo in quel musetto dolcissimo, triste e con lo sguardo costantemente perso nel vuoto. Lei mi rispose che aveva da fare i compiti, mi fece capire che non voleva rispondere alle mie “noiose” domande, lei doveva studiare, perché la mamma le aveva detto che doveva fare quello. Ok, dissi, facciamo quello che vuoi tu.
Così cominciammo a studiare insieme, una volta alla settimana, per un’ora, lei era sempre puntuale: io pretendevo che la famiglia la portasse puntuale alla sua lezione di italiano, storia, geografia, scienze…
Le prime settimane era lei a condurre il gioco: lei diceva cosa fare, come farlo ed io lasciavo che lo facesse. Doveva essere libera di imparare a modo suo, il mio compito era quello di intervenire dove lei incontrava difficoltà.
Acquistai così la sua fiducia; veniva da me molto volentieri e cominciò anche a sorridere, a sentirsi a suo agio, a parlarmi delle sue cose di scuola, di casa…
Dal canto mio sapevo che quell’atteggiamento assente che la bambina mi proponeva e che aveva con tutti gli interlocutori, era la risposta ad un preciso tipo di relazione che la famiglia e probabilmente anche gli insegnanti a scuola avevano instaurato con lei, non certo una sua incapacità cognitiva.
Mi ero accorta che quando l’adulto parlando con lei non comprendeva ciò che stava dicendo, non si sentiva mai in obbligo di chiedere alla piccola cosa volesse dire, ma la lasciava “nel suo brodo” dissociato. Dovevo interrompere questo tipo di relazione anaffettiva e lo feci chiedendo più volte a Rosita di spiegarsi meglio o chiedendole di rispondere alla mia domanda precisa. Insomma cercai di “costringere” la bambina all’attenzione facendole sentire la mia presenza affettiva e soprattutto interessata a ciò che lei stava dicendo. Le chiedevo di guardarmi negli occhi e mentre lei lo faceva le sorridevo. Così facendo (sorridendo), le comunicavo che il guardarmi negli occhi era una fatto positivo e soprattutto rassicurante.
Poi c’era l’errore. Quell’errore imperdonabile che più di una volta le deve aver fatto abbassare lo sguardo e annullare il rapporto rendendolo assente. Dovetti attuare un grosso lavoro sulla sua autostima incoraggiandola, facendola sentire giusta, permettendole di sbagliare e accogliendo l’errore, senza rimprovero, senza giudizio. “Sei di coccio”, le diceva la maestra, “proprio non capisci”… Quelle parole che un bel giorno mi riportò quasi sorprendendomi, le permisero di diventare “arrabbiata”. Sì, perché la piccola Rosita, non sapeva neanche arrabbiarsi con chi le faceva del male, il male psicologico, quello invisibile, che ti rende assente e anaffettivo… Fino a quando, nella relazione con me, che l’ha resa più viva e presente, non lo ha potuto esprimere.
Dopo soli 5 mesi Rosita ha imparato a leggere fluidamente e capisce quello che legge. Ti guarda negli occhi e non ha più lo sguardo assente. Risponde alle domande con coerenza. Oggi Rosita ha di nuovo la possibilità di viversi pienamente la scuola come gli altri bambini.
Rosita non aveva bisogno di neuropsichiatri o logopedisti, aveva bisogno di una pedagogista-insegnante capace di rispettare il suo essere antropologico, e soprattutto consapevole che la formazione didattica contenutistica è un obiettivo accessibile a tutti i bambini se gli viene consentito dall’adulto.
Dr.ssa Tiziana Cristofari
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Un titolo e un contenuto sicuramente contro tendenza, dato che libri e manuali sull’argomento parlano solo di come riconoscere i disturbi dell’apprendimento e quali sono gli strumenti dispensativi e/o compensativi per sostenere una realtà che, secondo la maggioranza della comunità scientifica, non ha soluzione in quanto i disturbi sarebbero causati da fattori genetici o neurobiologici.
Nel mio libro affronto scientificamente tutti questi argomenti e li smonto uno per uno dimostrando come sia improbabile quanto viene affermato. Ma soprattutto spiegando perché la comunità scientifica non ha ancora compreso o voluto comprendere, che questi “disturbi” mettono radici lì dove la scuola e la famiglia crescono figli e studenti senza una pedagogia adeguata.
Descrizione del libro. È intelligentissimo, ma il maestro mi dice che non ascolta. Legge stentatamente e la maestra mi ha detto che potrebbe essere dislessica. Non ricorda le tabelline e mi hanno detto che potrebbe essere discalculico. Mi hanno consigliato il logopedista. Mi hanno detto che dovrei portare mia figlia a fare una visita dalla neuropsichiatra infantile. Poi ho letto un suo articolo… Poi cercando su internet il significato di queste parole mi sono imbattuta nel suo sito… È con le stesse parole che un papà arriva da una pedagogista che ha trovato la soluzione ai disturbi specifici dell’apprendimento. Inizialmente scettico, ma speranzoso – perché sua figlia, presunta dislessica, ha difficoltà relazionali con lui e un calo del rendimento scolastico -, s’imbatte in un’avventura scientifica, realistica e umana senza precedenti. Andrà alla scoperta del pensiero di medici e pedagogisti di fama mondiale che gli spiegheranno perché quello che comunemente si racconta sui disturbi dell’apprendimento non è realistico, trovandosi così involontariamente alla ricerca di una conoscenza genetica, neurobiologica, psicologica e soprattutto pedagogica di cui era profondamente allo scuro come del resto buona parte della comunità scientifica ed educativa. Riuscirà in questo modo a capire come nascono, come si prevengono e come si superano i disturbi dell’apprendimento. Ma soprattutto imparerà come è possibile evitarli con l’applicazione di una scienza che nel tempo è stata annullata dalla politica e negata nella formazione dei nuovi docenti: la scienza pedagogica.
Oggi il 25% dei bambini di una classe viene diagnosticato con un disturbo dell’apprendimento. Dicono che il problema è genetico o neurobiologico e per questo non si può far nulla se non dispensare e/o compensare. E se così non fosse?
La dottoressa Tiziana Cristofari pedagogista e docente, con l’aiuto tratto da teorie e prassi di eminenti e riconosciuti studiosi in pedagogia, psicologia e psichiatria – tra i quali Giovanni Genovesi, Shinichi Suzuki, Howard Gardner, Lev Semënovič Vygotskij, Massimo Fagioli -, ha dimostrato come sia ampiamente improbabile che i disturbi specifici dell’apprendimento abbiano origine genetica o neurobiologica e come invece siano il frutto dell’assenza totale di pedagogia scolastica e familiare.
Codice ISBN: 9791220015424