Il 6 e 7 aprile si è svolta l’assemblea Nazionale APEI in cui si è tentato di dare un’identità pedagogica spiegando perché la pedagogia non è la psicologia.
Alessandro Prisciandaro, presidente, in un suo intervento ha riproposto al pubblico presente una domanda che a lui stesso era stata posta. La domanda in questione era:
«Perché se uno psicologo come Giacomo Stella presidente dell’Associazione Nazionale Dislessici o un pedagogista come Daniele Novara fondatore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, organizzano un evento hanno un grande seguito di persone, ma se lo organizziamo noi pedagogisti ciò avviene in modo più ristretto?»
Avevo chiesto ad Alessandro la parola per dare un contributo a questa domanda, che però non mi è stata concessa, suppongo per questioni di tempo, vorrei provare ora a darla per iscritto.
In Assemblea abbiamo parlato di identità pedagogica specificando la nostra distanza con la psicologia, anche se oltre a quello che è stato detto ci sarebbero state ancora moltissime cose da dire che ci differenziano dagli psicologi e ci sostanziano come pedagogisti. Non potendole accennare ora in quanto tante e articolate, vorrei comunque tentare di rispondere a quella domanda.
Il dr. Stella è uno psicologo. Il centro del dr. Novara, seppur lui pedagogista, è un centro psicopedagogico. Entrambi ampiamente pubblicizzati in televisione e questo già fa la differenza.
Ma la verità più profonda è insita nei termini psicologico e psicopedagogico utilizzati il primo, spesso per screditare la pedagogia il secondo per parlare di pedagogia, ma facendo un errore a mio avviso gravissimo. Quest’ultimo termine (psicopedagogico) riporta nella mente due pensieri distinti: da una parte che si parla di pedagogia, ma dall’altra che il pedagogista in qualche modo è anche uno psicologo, o che comunque nella stessa sede, ci sono esperti in psicologia, esperti della cura. Questo fatto altera e crea confusione fuorviando dalle competenze esclusive del pedagogista e che non hanno nulla a che vedere con la malattia e la cura medica.
Questi termini utilizzati richiamano un’attenzione verso la psicologia, e l’utenza (dai docenti ai genitori), inquadra quelle persone e quegli eventi in ambito psicologico, non certo pedagogico. Questa è la loro seconda carta vincente (dopo la pubblicità televisiva).
Entrambi (psicologia e psicopedagogia) con la pedagogia pura non hanno nulla a che vedere. Il primo perché si occupa appunto di psicologia (di cura), il secondo, perché facendo entrare un’attività psichica nel contesto pedagogico, attribuisce alla pedagogia una realtà che non gli appartiene; ma fa business, fa breccia nel tessuto sociale che conosce meglio gli ambiti psicologici rispetto a quelli pedagogici.
Ciò che voglio dire è che, se il messaggio che si passa alla collettività è di un intervento basato sulla psicologia, è ovvio che l’ambito psicologico, più conosciuto del pedagogico, abbia un seguito e spesso anche una credibilità maggiore.
La verità è che noi che facciamo pedagogia (e solo pedagogia), facciamo molta fatica a rendere il lavoro credibile perché le persone non sanno quale sia la nostra attività, cosa comporti e dove porti, e pertanto poco la utilizzano realmente, ma quando lo fanno spesso pensano che ci muoviamo proprio in abito psicologico.
Questo messaggio sbagliato è anche causa nostra e dei colleghi che, non avendo un’identità pedagogica forte e consapevole, mischiano le conoscenze accademiche attribuendosi o attribuendo al proprio mestiere terminologie che non gli appartengono. Lo psicopedagogista non esiste. Può esistere un laureato sia in pedagogia che in psicologia, ma ha due lauree.
Il pedagogista, può e deve fare della psicologia l’uso che ne deriva dalla conoscenza di come la mente dell’essere umano si muove, esattamente come studiando antropologia conosce il senso e il significato dell’ambiente in cui un bambino è inserito, strumenti questi che utilizza per il suo lavoro unico, specifico e distante dalla pratica psicologica.
Per dirla ancora meglio, la nostra formazione accademica, per sviluppare il profilo del pedagogista fonda la sua realtà su varie discipline umanistiche tra le quali la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la filosofia e la storia ecc. Non per questo però possiamo andare in giro a dire che siamo degli storici, piuttosto che dei filosofi, che dei sociologi e via dicendo. Meno che mai, un laureato in psicologia può andare in giro dicendo di essere un pedagogista se non con una laurea in pedagogia in mano.
Per essere più chiari ancora: il pedagogista permette di sviluppare le potenzialità dell’essere umano a lui affidato tenendo presente il suo individuale e personalissimo ambito antropologico, il suo potenziale psicologico-cognitivo (che significa conoscitivo), la sua storia, la sua capacità sociale, la sua realtà filosofica. Partendo da queste conoscenze di formazione accademica, il pedagogista fa, in una parola, pedagogia con una prassi e un metodo preciso che non è la cura, ma è la didattica, la relazione e il metodo educativo.
Pertanto, la risposta al perché noi non abbiamo un esercito di docenti e genitori, ma direi anche di pedagogisti, disposti a seguire le indicazioni puramente pedagogiche, è causa di una mancata identità professionale pedagogica, di una poca diffusione di ciò che facciamo e di come lo facciamo, mischiando spesso terminologie per avvicinare un pubblico che, spaventato dalla malattia mentale (psicologia), ma allo stesso tempo alleggerito dalla responsabilità di essere l’artefice delle problematiche della crescita del proprio figlio o studente (pedagogia), corre dallo psicologo che si spaccia per pedagogista, e questo permette a quel genitore o insegnante (ma anche pedagogista) di sentirsi al sicuro perché crede di conoscere cosa fa la psicologia, ma allo stesso tempo il termine pedagogia lo tranquillizza sulla malattia mentale.
E da qui nuovamente il circolo vizioso: per i problemi degli studenti, pedagogia o psicologia?
Dr.ssa Tiziana Cristofari
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