Si rende noto che negli articoli pubblicati su questo blog l’utilizzo del maschile e del femminile è casuale e si alterna per esigenze di scrittura e per par condicio.
Il papà dice: “Ti telefono giovedì”. E poi non chiama, fa silenzio!
L’adolescente chiama il genitore al telefono, ha bisogno di lui, gli spiega il problema, cosa gli è accaduto, gli esprime di essere agitato, di avere bisogno di parlare; ma il genitore risponde che in quel momento ha da fare, che non può stare a sentire ciò che ha da dire, anche se “quel da fare” può essere rimandato. Si sottrae, fa silenzio.
Un’adolescente scrive al papà un SMS, una mail, un messaggio in FB, WA. E l’altro non risponde, fa silenzio.
Uno studente telefona alla mamma. Ma lei non risponde e non richiama, fa silenzio.
Un bambino piange e strilla forte per attirare l’attenzione. Ma chi dovrebbe accorrere non lo fa, fa silenzio.
A scuola una bambina chiama la sua insegnante. Ma lei non le dà retta perché parla con una collega, fa silenzio.
Una studentessa domanda al professore spiegazioni su un argomento che non ha capito, ma lui dice che le risponderà dopo e poi, peggio ancora, non le risponde più, fa silenzio.
Una bambina chiama insistentemente il papà che sta parlando con una persona. Il papà la ignora e continua a conversare, fa silenzio.
Un bambino racconta qualcosa alla mamma, ma la mamma, invece di sedersi e guardarlo negli occhi, è indaffarata a fare altro, sta facendo silenzio.
Un bambino gioca sull’altalena e guarda la mamma seduta sulla panchina attenta a scrivere messaggi sul cellulare, la chiama, ma lei continua a scrivere, fa silenzio.
Una bambina sui pattini è diventata più brava. Chiama il papà perché vuole che lui la guardi. Il papà è preso a corteggiare una passante e non le risponde, fa silenzio.
Mamma e papà portano i loro bambini a correre per i prati mentre loro si siedono uno a leggere il giornale, l’altra a chiacchierare al telefono con la nonna. I bambini nel frattempo giocano tra di loro, ad un certo punto comincia una zuffa, i genitori li guardano, ma continuano a fare ciò che stavano facendo, fanno silenzio.
Genitori e figli sono seduti ad un tavolo. I genitori parlano tra di loro, i figli tacciono intimoriti. I genitori fanno silenzio.
Una bambina torna da scuola. La mamma le domanda come è andata, ma lo fa senza interesse, lo fa solo perché si sente in obbligo di chiedere come è andata. La figlia risponde, la mamma continua a fare domande, ma quando la figlia risponde ancora la mamma sta già pensando ad altro. Sta facendo silenzio.
Un bambino chiama dalla sua cameretta insistentemente la mamma che si trova in un’altra stanza. Lei non risponde, fa silenzio.
Una bambina sta male. Il papà e la mamma trovano sempre giustificazioni per non passare del tempo con lei, fanno silenzio.
Tutta la famiglia va in gita, ma c’è tensione e tra di loro non si parlano, fanno silenzio.
Di questi esempi ne potremmo fare a centinaia, con tantissime variabili, ma il significato è e sarà sempre lo stesso, il silenzio.
Certo, mi direte, a chi non è capitata una delle situazioni che ho descritto? Siamo umani, dicono, e a tutti può succedere. Il problema però nasce quando tutto questo diventa una routine, un’abitudine, la normalità di tutti i giorni, quando questi episodi non sono una rarità nel tempo.
Si potrebbe affermare che in certi momenti il silenzio, come dice un vecchio proverbio, è oro. Ad esempio, ho capito che una certa persona non è degna della mia amicizia e pertanto non le rispondo al telefono perché so che se lo facessi continuerebbe a insultarmi; ci può stare, il silenzio in questo caso è oro.
Ma per tutti i casi sopra descritti, soprattutto se rivolti verso i nostri bambini o ragazzi, il silenzio equivale a passare l’idea che, chi lo subisce, non sia niente, non valga niente per la persona che lo impone. Si passa il messaggio che una letta al giornale o una chiacchierata con un’amica o con la nonna o un SMS, ecc. ha più valore di chi chiede attenzioni. Il messaggio che trasmettiamo alle persone che ci stanno vicine non sono solo le parole che esprimiamo (anche se importantissime), ma molto più importanti sono i movimenti che facciamo, perché il movimento del corpo (prendere il telefono, ignorare un pianto, non rispondere ad una domanda ecc.) equivalgono ai movimenti della mente e quindi al pensiero, a ciò che proviamo, a ciò che la nostra mente ci spinge a fare o non fare per i nostri figli o studenti. Pertanto quello che trasmettiamo attraverso i gesti è un messaggio molto potente.
Ma non solo, e forse non è nemmeno il problema più grave.
La presenza fisica, se la mente viene esclusa, non lascia alcuna esperienza emotiva o affettiva positiva nelle persone, ma suscita indifferenza, anaffettività, esclusione. Se noi siamo presenti solo fisicamente con i nostri figli e studenti, non possiamo creare alcuna relazione affettiva che possa indurre figli e studenti a stimarci e a diventare nostri complici.
Vi domanderete: perché è fondamentale che figli e studenti possano entrare in un rapporto di stima e fiducia, che diventa poi con il tempo anche complicità? Per tantissimi motivi, proviamo ad elencarli.
Se mio figlio mi stima io sarò per lui un punto di riferimento certo. E questo è importante perché lui non mi escluderà dalla sua vita, dai suoi pensieri (positivi o negativi), dalle sue esperienze (positive o negative), dalle sue scelte (positive o negative), ecc.
Se la mia studentessa ha fiducia in me, tornerà da me ogni volta che incontrerà delle difficoltà e io avrò l’opportunità di essere un vero sostegno e punto di riferimento per la sua crescita affettiva e culturale. Non solo, lei avrà più piacere di imparare e di andare a scuola.
Se figli e studenti ci sono complici, ci coinvolgeranno nelle loro iniziative e avranno molta meno probabilità di sbagliare o deviare verso strade inadeguate. E sapete poi a cosa porta la stima, la fiducia e la complicità? A farli essere più responsabili; perché se so che mia madre ha fiducia in me io non la voglio deludere; se stimo la mia insegnante, lei sicuramente riuscirà a stimarmi, e io farò di tutto affinché quella stima possa continuare ad essere coltivata. Se mio padre mi è complice io vorrò portarmelo dietro in quello che faccio, perché lui non mi giudicherà, perché lui su tante cose è più bravo di me (perché è maturo, ha già fatto esperienza ecc.) e mi aiuterà nei miei progetti di vita o di gioco o di conoscenza, senza farmi sentire uno stupido e permettendomi così, la formazione di una buona autostima.
Tutto questo porta all’unica possibilità legittima e costruttiva di sapere cosa fanno i nostri giovani, cosa vogliono, chi frequentano; e lo possiamo fare senza dover mettere paletti, limiti, senza dover minacciare, vietare, senza dover indagare per sapere, perché saranno loro a parlarci di tutto, a raccontarci tutto, perché sapranno di poterlo fare. E così facendo noi li potremmo proteggere dai pericoli a cui la vita li sottopone inevitabilmente (violenza psicologica e fisica, bullismo, internet con tutti i suoi tranelli, cattive compagnie, droga, ecc.).
Creare stima, fiducia e complicità è tra le cose più difficili e più importanti nel rapporto figli-genitori e studenti-docenti, ma è un’opportunità che abbiamo tutti e che dobbiamo poter e saper coltivare. Non è una cosa facile, è vero: come dico spesso nei miei articoli e libri, bisogna essere in un certo modo per poter fare certe cose. Ma essere è cultura e voglia di cambiare. La nostra mente, per essere, ha bisogno di nutrimento e quel nutrimento si chiama conoscenza. Leggere non è solo un’opportunità che ci ha donato la vita per avere migliori scambi con il mondo. Leggere è un nostro diritto-dovere per diventare migliori, per avere possibilità che altrimenti non ci sarebbero. Per poter raggiungere quel meglio che l’umanità da sempre cerca. E non pensiamo che qualcuno ci possa donare “quel meglio”, perché, senza retorica, è un meglio che non si acquista, non si ruba, non si regala, ma si ottiene per mezzo della cultura che personalmente riusciamo, possiamo o vogliamo coltivare.
Mi sento dire spesso dai genitori, che quando portano i figli al parco, quello è l’unico momento libero per fare una telefonata o leggere una pagina di giornale. Non dubito di questo, ma quel momento che passate con i vostri figli è fondamentale per loro e per la loro crescita affettiva ed emotiva e voi dovete essere abbastanza maturi da poter rinunciare ad un vostro bisogno per una loro conquista.
Se state con i vostri bambini o con i vostri studenti fisicamente, ci dovete essere anche mentalmente perché è l’unico modo per trasmettere quel forte potere umano dell’affettività, dell’interesse, che solo il pensiero può dare. Quando vostro figlio vi chiama e voi state parlando con qualcuno, succede spesso che ci si sente in imbarazzo con l’interlocutore e per questo si tende a ignorare il richiamo di nostro figlio e a continuare la conversazione. Dobbiamo invece imparare a gestire le relazioni (anche con un interlocutore che ci è estraneo), e prendere in mano la situazione: invece di lasciare che la vostra bambina vi chiami all’infinito, dovete interrompere la conversazione con il vostro interlocutore, e dovete spiegarle, con molta dolcezza che, quando avrete finito di parlare, l’attenzione sarà tutta per lei. Certo è, che poi lo dovete fare veramente, ossia dovete mantenere la parola data. Questo permetterà a vostra figlia di imparare a rispettare i vostri tempi e allo stesso modo imparerà a capire che attendere non gli precluderà la vostra attenzione, il vostro amore, il vostro interesse per lei. Questo modo di fare interessato crea buoni rapporti, crea figli attenti ai bisogni e all’esigenze degli altri, crea figli socialmente inseriti, altruisti e portatori di umanità; in una parola insegnerete ai vostri figli il rispetto per il prossimo. Non solo: avrete più stima anche da parte del vostro interlocutore perché si troverà a fare una conversazione serena, senza più le urla del richiamo di vostra figlia.
Ci vediamo alle 16,30 quando la scuola chiude. E poi arrivate alle 17,00. Questo ritardo che è a sua volta un silenzio, nella mente di vostro figlio, gli suggerisce l’abbandono. Tutti i genitori dei suoi compagni sono venuti a prenderli in orario, mentre lui è stato abbandonato, dimenticato. Certo, quando voi arriverete, lui sarà felice che quel pensiero fatto non fosse la realtà e non vi dirà mai “ho pensato che mi avessi abbandonato”. Ma nella sua mente, il pensiero dell’abbandono sarà difficile da scardinare e porterà con sé altre problematiche caratteriali, soprattutto se i ritardi diventano, anche qui, un’abitudine.
Il ritardo (che abbiamo detto equivale a un silenzio), le promesse fatte e non mantenute, le scuse prese per distrarre i vostri bambini da certe situazioni (tipo: andiamo via dal parco e ti compro il gelato, ma poi realmente il gelato non si compra), porta con sé anche un altro problema: state passando il messaggio che voi siete incoerenti, ossia che dite una cosa ma ne intendete un’altra. Questo è un errore molto grave di comportamento, perché disorienta, fa perdere fiducia, una fiducia che si costruisce sulle piccole cose di tutti i giorni come la puntualità, come l’onestà, come la verità, come le promesse mantenute. Pertanto la parola e il movimento del corpo, hanno un grosso significato, e per essere considerati attendibili, devono corrispondere al nostro comportamento, che equivale poi a corrispondere al nostro più intimo pensiero.
Quando un adulto (genitore o insegnante) non risponde alle richieste dei bambini, quindi non permette la soddisfazione di un bisogno o di un’esigenza di conoscenza; ovvero non permette la soddisfazione della possibilità di sapere, di imparare, e lo fa banalmente non rispondendo, facendo silenzio ad una richiesta esplicita, causa nel bambino un vissuto di frustrazione che non consente un’evoluzione psichica positiva, ma è causa di odio e frustrazione negativa e distruttiva.
Assente è colui che ti dà la pacca sulla spalla e ti dice che va tutto bene, anche quando questo è palesemente non vero; assente è colui che vuole aiutare l’altro senza renderlo libero di fare da sé, come se fosse un atto caritatevole. Ad esempio: non sai fare un compito? Te lo faccio io, ma non ti spiego come si fa. Assente è un genitore o un insegnante o un educatore che ignora il pianto di un bambino e lo fa sgolare fino a farlo diventare cianotico. Assente è colui che sminuisce i bisogni o le necessità di un figlio o di uno studente. Assenti sono tutti coloro che ignorano la realtà umana dei propri figli e dei propri studenti per soddisfare le proprie necessità personali.
L’assenza (come qui l’abbiamo interpretata), di un genitore o di un insegnante è un atto aggressivo nei confronti dei propri figli o studenti ogni qualvolta si attua in coincidenza e in soddisfazione di un proprio bisogno personale.
Dr.ssa Tiziana Cristofari
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Il libro è reperibile scontato
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Un titolo e un contenuto sicuramente contro tendenza, dato che libri e manuali sull’argomento parlano solo di come riconoscere i disturbi dell’apprendimento e quali sono gli strumenti dispensativi e/o compensativi per sostenere una realtà che, secondo la maggioranza della comunità scientifica, non ha soluzione in quanto i disturbi sarebbero causati da fattori genetici o neurobiologici.
Nel mio libro affronto scientificamente tutti questi argomenti e li smonto uno per uno dimostrando come sia improbabile quanto viene affermato. Ma soprattutto spiegando perché la comunità scientifica non ha ancora compreso o voluto comprendere, che questi “disturbi” mettono radici lì dove la scuola e la famiglia crescono figli e studenti senza una pedagogia adeguata.
Descrizione del libro. È intelligentissimo, ma il maestro mi dice che non ascolta. Legge stentatamente e la maestra mi ha detto che potrebbe essere dislessica. Non ricorda le tabelline e mi hanno detto che potrebbe essere discalculico. Mi hanno consigliato il logopedista. Mi hanno detto che dovrei portare mia glia a fare una visita dalla neuropsichiatra infantile. Poi ho letto un suo articolo… Poi cercando su internet il significato di queste parole mi sono imbattuta nel suo sito… È con le stesse parole che un papà arriva da una pedagogista che ha trovato la soluzione ai disturbi specifici dell’apprendimento. Inizialmente scettico, ma speranzoso – perché sua figlia, presunta dislessica, ha difficoltà relazionali con lui e un calo del rendimento scolastico -, s’imbatte in un’avventura scientifica, realistica e umana senza precedenti. Andrà alla scoperta del pensiero di medici e pedagogisti di fama mondiale che gli spiegheranno perché quello che comunemente si racconta sui disturbi dell’apprendimento non è realistico, trovandosi così involontariamente alla ricerca di una conoscenza genetica, neurobiologica, psicologica e soprattutto pedagogica di cui era profondamente allo scuro come del resto buona parte della comunità scientifica ed educativa. Riuscirà in questo modo a capire come nascono, come si prevengono e come si superano i disturbi dell’apprendimento. Ma soprattutto imparerà come è possibile evitarli con l’applicazione di una scienza che nel tempo è stata annullata dalla politica e negata nella formazione dei nuovi docenti: la scienza pedagogica.
Oggi il 25% dei bambini di una classe viene diagnosticato con un disturbo dell’apprendimento. Dicono che il problema è genetico o neurobiologico e per questo non si può far nulla se non dispensare e/o compensare. E se così non fosse?
La dottoressa Tiziana Cristofari pedagogista e docente, con l’aiuto tratto da teorie e prassi di eminenti e riconosciuti studiosi in pedagogia, psicologia e psichiatria – tra i quali Giovanni Genovesi, Shinichi Suzuki, Howard Gardner, Lev Semënovič Vygotskij, Massimo Fagioli -, ha dimostrato come sia ampiamente improbabile che i disturbi specifici dell’apprendimento abbiano origine genetica o neurobiologica e come invece siano il frutto dell’assenza totale di pedagogia scolastica e familiare.
Codice ISBN: 9791220015424
DVD sulla storia dell’uomo dalla nascita del mondo
alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente.
Tutto il programma di STORIA della scuola primaria raccontato
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Di cosa parlano i libri di autoformazione? Cosa si fa nei corsi automotivazionali? Perché dopo che ho letto un libro e/o ho frequentato un corso non ho raggiunto il mio scopo, il mio obiettivo? La Dr.ssa Cristofari, autrice di questo testo incredibile (che è una via di mezzo tra una biografia e un saggio altamente educativo), spiega, attraverso una narrazione semplice e concreta, attraverso un’esperienza formativa fatta con uno dei più conosciuti coaches italiani, le motivazioni per cui troppo spesso libri e corsi automotivazionali, non permettono il raggiungimento dei propri obiettivi, causando, di conseguenza, la perdita dell’autostima e della fiducia in se stessi.