Quando all’età di 21 anni (1993) andai per la prima volta a donare il sangue rimasi stupefatta: mi fecero sentire una regina. Una gentilezza che ti invogliava a tornare, ti coccolavano, ti ringraziavano, si prendevano cura di te dall’accettazione fino alla colazione ristoratrice. Ma soprattutto la stessa infermiera non ti lasciava un solo minuto per tutto il tempo che eri alla poltrona. Quel comportamento mi stupiva e mi piaceva, sicuramente mi invogliava a tornare. Siamo talmente abituati a ricevere atteggiamenti di sufficienza nei servizi pubblici, che quel clima mi è rimasto addosso come un’esperienza bellissima. Certo, uno può pensare che essendo una donazione quel comportamento dovesse essere scontato: dai qualcosa di te senza ricevere nulla in cambio, il minimo è venir trattati con cortesia.
Qualcosa però poi negli anni lentamente è cambiata. Mentre prima mi regalavano spillette e adesivi dei donatori da attaccare sul vetro della macchina, oggi con le varie associazioni che si contendono gli iscritti “donatori”, offrono realtà economiche quali ad esempio convenzioni con strutture mediche, con i cinema, i teatri ecc. Come se la donazione che prima mi facevano vivere e vivevo come un principio etico e comunitario del dare senza avere nulla in cambio oggi non esiste più: chi non ricorda la pubblicità di quell’uomo che nei corridoi dell’ospedale incontrava un adolescente che andava a donare il sangue per il suo amico e l’adulto che gli diceva “anche io sono venuto per Giovanni”. Il ragazzo rispondeva “Perché, lo conosci anche tu?” e l’uomo semplicemente “no”. Era una meravigliosa pubblicità di grandissimo valore etico e pedagogico.
Oggi non c’è più tutto questo, e si traduce in un diverso approccio al donatore, considerandolo qualcuno che dà per ricevere qualcosa in cambio. Quei tentativi di educazione non esistono più e tutto è diventato merce, e per incentivare le persone si offrono servizi, ovvero realtà economiche. E se anche questo cambiamento può sembrare giusto per invogliare le persone a fare una donazione, c’è il grandissimo risvolto della medaglia, che è disgustoso, ovvero non sono più tenuti a rispettare la tua identità umana.
Venerdì mattina mi sono recata per l’ennesima volta a compiere un gesto che sento fondamentale per la mia esistenza. Diversamente dall’ultima volta che ho donato (autunno scorso) in un presidio diverso, mi sono presentata stavolta al San Camillo-Forlanini per questioni di praticità, e qualcosa mi è rimasta indigesta.
Gentilissima l’infermiera dell’accettazione, gentilissima e delicatissima l’infermiera addetta alla misurazione della pressione e alla valutazione dei valori dell’emocromo, freddino il dottore per la visita, ma comunque gentile, inaccettabile il comportamento degli operatori addetti alla donazione del sangue.
Dopo le prime tre realtà (accettazione, valutazione emocromo, visita medica), mi sono fermata sulla porta della sala per il prelievo, in attesa che mi chiamassero. Poco dopo passa un’infermiera e mi chiede in modo alquanto sgarbato cosa facessi lì in piedi dato che avevo già fatto le prime tre “tappe” dell’iter e che potevo entrare. Le rispondo garbatamente che aspettavo qualcuno mi invitasse a farlo. Quindi entro e, dato che tutti gli operatori erano impegnati con altri donatori, ho aspettato nuovamente indicazioni.
Gli infermieri di sala mi vedevano, ma nessuno proferiva verbo. Ripassa la stessa infermiera di prima che, con fare altrettanto sgarbato, mi dice di appendere la borsa ad un appendiabiti che sarebbe rimasto nascosto alla mia vista e aperto al pubblico. Garbatamente le rispondo che preferisco tenerla vicino a me. Nel frattempo, siccome lei si stava occupando dei donatori per l’aferesi in una sala adiacente, continuo ad aspettare che gli infermieri mi dicano dove sedermi.
Ancora una volta in modo scortese, questa volta però l’infermiere preposto alla mia donazione, mi dice di lasciare la borsa sul famoso attaccapanni, ignorando letteralmente che avevo già risposto di volerla tenere con me e lui aveva ben sentito. Volete sapere la sua spiazzante reazione quale è stata al mio ennesimo “la borsa la tengo con me”?
«Se non la lascia lì, non dona il sangue».
Il mio sangue in realtà a quella affermazione si è raggelato, mentre un’altra infermiera che immagino abbia notato la mia espressione, mi ha anticipata nella risposta, invitandomi a lasciare la borsa su un carrellino davanti alla mia postazione, e impedendomi così non solo di ridergli in faccia a quell’arrogante infermiere, ma soprattutto di dirgli quello che stavo pensando in quel momento.
Ma questo non è ancora niente!
Per chi non lo sapesse, perché non ha mai avuto modo di donare, la procedura per inserire l’ago nel braccio è piuttosto lunga rispetto a un classico prelievo per le analisi, e ci vuole un po’ di concentrazione da parte del personale che la pratica: devono assicurarsi che alla macchina corrispondano i tuoi dati con un rilevatore, devono attaccare le etichette per le analisi sulle provette; devono mettere il laccio emostatico, poi dopo aver debitamente pulito il braccio infileranno l’ago. Quando il sangue comincia a defluire, siccome hai due tubicini che lo portano a destinazioni diverse, c’è tutto l’armamentario che serve a prelevare nelle apposite provette il sangue per le analisi e che poi l’infermiera dovrà, tramite una forbice speciale, chiude, mentre il sangue continua a defluire nell’altro tubicino per l’effettiva donazione fino al raggiungimento della dose da prelevare.
Per fare tutto questo sul mio braccio, hanno iniziato e sospeso il lavoro ben tre volte, si sono intercambiate fra di loro cominciando, sospendendo e poi riprendendo il lavoro iniziato da un’altra, chiacchierando di fatti personali come se potessero interessare a noi donatori, mentre io mi sentivo a disagio dai vari passaggi e pensavo “speriamo che non si sbaglia con le etichette e con tutto ciò che deve fare”. Ma non dovevo essere messa a mio agio e tranquillizzata il più possibile?
Sicuramente saranno abituate a farlo, ma io non sono solo un pezzo di carne che si offre volontaria, e l’attenzione per ciò che si fa sul mio braccio, mi sento di avere il diritto di pretenderla.
Ma la cosa più eclatante è ancora un’altra.
Permettetemi però una piccola digressione.
Vivendo nel mondo della scuola ho vissuto il passaggio, negli ultimi vent’anni, dell’utilizzo di un vocabolario terribile nei confronti degli studenti, che ha distrutto lentamente l’idea di maturità e umanità del bambino e dell’adolescente.
A scuola oramai si sente parlare di “dirigente” scolastico, “capitale” umano, crescita personale, competitività, meritocrazia ecc, tutti termini legati al mondo economico finanziario, non certo legati alla formazione interiore e all’etica dell’essere umano. Cosa che ha portato i docenti poi a riferirsi agli alunni con acronimi, anziché per nome: “io ho due DSA, tu quanti ADHD hai?”
Quando però anche dentro una struttura medica, dove la donazione di sangue è un atto ancora molto etico e molto umano, senti che il personale si riferisce a te o agli altri dicendo “io buco qui, tu buca lì, quando ho finito di bucare vengo”, allora capisci che forse è fondamentale cominciare a pensare che l’educazione non è solo un fatto di disciplina (come in tanti erroneamente pensano), ma anche una questione etica e morale, una questione di umanizzazione dell’essere umano, capace di dare rispetto e considerazione all’altro.
A quelle parole ho incrociato lo sguardo con un altro donatore davanti alla stessa persona che le pronunciava, e abbiamo riso sottolineando l’assurdità di quegli appellativi e la considerazione che ne deriva per il donatore stesso (praticamente siamo diventati solo buchi), mentre l’infermiera infilando l’ago nel braccio del mio interlocutore seduto affianco a me e forse, comprendendo il senso delle nostre proteste seppur ironiche, vergognandosi, spero, profondamente, di ciò che aveva appena pronunciato, tentava una giustificazione altrettanto ridicola: “lo diciamo talmente tante volte che adesso non gli diamo più peso”. Una confessione con tentativo di assoluzione decisamente fuori luogo.
È dura pensare che i giovani siano diventati “capitale umano” o DSA piuttosto che ADHD, ma terribilmente dura e svilente è pensare che i donatori siano diventati solo dei “buchi”.
Non ci resta che pensare di donare sangue da un buco.
Dr.ssa Tiziana Cristofari
PS: Continuate a donare! Io lo farò, nonostante tutto.