A scuola: pedagogia o psicologia? Ecco perché le due discipline sono profondamente diverse, ma anche perché la pedagogia non può ignorare la psicologia.
Torno sull’argomento nel tentativo di chiarire ancora una volta le posizioni delle due discipline scientifiche quali la pedagogia e la psicologia.
La confusione nello svolgimento delle mansioni tra pedagogisti e psicologi fa sì che l’un l’altro si accusino di usurparsi il lavoro: il pedagogista dichiarando che lo psicologo vuole entrare a scuola e medicalizzare tutti i bambini, forse con ragione; lo psicologo dichiarando che il pedagogista si vuole occupare della mente dei bambini, mentre sarebbe un loro compito. In parte è vero, ma non del tutto. Vediamo perché.
Il pedagogista è un educatore specializzato nella crescita e nella formazione cognitiva (conoscitiva), cioè è colui che permette tramite lo studio scientifico della scienza pedagogica di ottenere il massimo nella qualità dalla crescita e dello sviluppo fisico e psichico di un essere umano.
Ho più volte detto che il pedagogista non deve mai parlare di cura, perché non essendo un medico, non può e non deve curare. Ma il pedagogista non può dire nemmeno di “prendersi cura”, perché se c’è qualcuno che si prende cura del bambino, questi sono i genitori, i nonni, gli zii, eventualmente il prete, e così via. Perché faccio questa puntualizzazione? Perché lo scopo profondo e irrevocabile del pedagogista è quello di permettere che ogni essere umano realizzi le proprie potenzialità. Ma tutto ciò è possibile se non si fanno atti caritatevoli o si ha un pensiero assistenzialistico. Il “prendersi cura” è assistenza. Se un pedagogista facesse assistenza, tradirebbe la sua professione e non otterrebbe l’indipendenza dell’essere umano (obiettivo a cui profondamente aspira l’etica pedagogica).
Ma veniamo allo psicologo. Il laureato in psicologia non specializzato in psicoterapia, può fare valutazioni cliniche psicologiche ma non può parlare di cura né curare (come da sentenza di Cassazione dell’11 aprile 2011 N°14408), perché non è medico, né specializzato nella psicoterapia. Senza la cura, lo psicologo fa assistenza, supporto. Ma non forma nelle scuole primarie, perché non sa, non conosce la pedagogia, né la didattica. Il suo ruolo di formatore è limitato alle scuole superiori nella specifica disciplina (la psicologia), come del resto il suo ruolo di prevenzione è limitato nelle scuole solo su specifica richiesta e approvazione delle famiglie dei bambini che frequentano le classi in cui si propone la prevenzione. Il pedagogista non ha bisogno di chiedere preventivamente alle famiglie un permesso per esercitare la professione nelle scuole, in quanto non si occupa di prevenzione medica, ma solo di formazione, integrazione e didattica.
Quindi mi sembra chiaro che le due professioni ognuna nella sua specificità hanno ruoli e compiti decisamente diversi: uno forma, l’altro assiste o fa prevenzione medica. È chiaro anche, che se ognuno conoscesse la propria identità professionale, non ci sarebbero conflittualità. Ma perché insorgono queste conflittualità?
A mio avviso, uno dei principali motivi di tale sovrapposizione di ruoli e competenze, mette radici, come dicevo prima, in una incapacità da parte dei professionisti di avere una forte identità professionale, ovvero di conoscere nel dettaglio non solo le proprie competenze e finalità, ma anche e soprattutto i bisogni e le esigenze di coloro che si rivolgono alla loro professione.
Un altro motivo è il business che si vuol fare intorno ai disturbi dell’apprendimento, a mio parere semplici difficoltà scolastiche date da un approccio scolastico e relazionale errato con docenti e/o genitori e che hanno alterato le capacità di apprendimento del bambino.
Se qualcuno avesse la voglia di informarsi attraverso la storia della scuola e della pedagogia, scoprirebbe che tali difficoltà nei bambini sono sempre esistite: un tempo i bambini venivano marchiati come incapaci, svogliati, poveri (di risorse e quindi, a loro dire, anche cognitivamente), in poche parole: non adatti alla scuola. Adesso, con la scusa di volerli aiutare e non farli passare più per degli svogliati, con ipocrisia e falso pietismo li “assistono”, condannandoli a vita parlando di malattia, disagio mentale, disturbo ecc. togliendogli definitivamente ogni possibilità di riuscita e facendo peggio di come si faceva prima. Quantomeno allora nessuno diceva al bambino di essere un malato! Un diverso! Di essere sbagliato rispetto ai suoi coetanei. E se aveva grinta, capacità, tenacia e un’opportunità giusta nella vita, ribaltava la sua condizione di svogliato, incapace e povero. Oggi invece ti condannano a vita ad avere qualcosa che di fatto non hai!
Nessuno però, a parte grandi eccezioni ignorate soprattutto in Italia come Maria Montessori (psichiatra e pedagogista), ha mai parlato di “questione pedagogia”. Lei stessa affermava: «…io però a differenza dei miei colleghi (psichiatri), ebbi l’intuizione che la questione dei deficienti fosse prevalentemente pedagogica, anziché prevalentemente medica; e mentre molti parlavano nei congressi medici del medico-pedagogico per la cura e l’educazione dei fanciulli frenastenici, io ne feci argomento di educazione morale al congresso Pedagogico di Torino nel 1898; e credo di aver toccato una corda molto vibrante poiché l’idea, passata dai medici ai maestri elementari, si diffuse in un baleno come questione viva interessante la scuola»*.
Nelle scuole italiane abbiamo attraversato il giudizio e l’esclusione nel passato, per arrivare al pietismo-assistenzialismo dei tempi attuali. Ma il tutto è finalizzato al medesimo risultato: ovvero far sì che una bella fetta di popolazione non vada avanti negli studi; possa essere medicalizzata per far girare l’economia; e possa rimanere in una realtà culturale inferiore in modo tale che alle elezioni politiche, qualunque sia lo schieramento di grido del momento possa in qualche modo influenzarne la mente e quindi il voto.
Ora, è chiaro che non nego la malattia della mente. Non nego il lavoro di tantissimi psicologi e psichiatri che facendo psicoterapia permettono alla persona malata, la cura. È il loro mestiere, è un mestiere necessario. Ciò che mi preme sottolineare è che se c’è malattia ci deve essere una cura, ma se la malattia non c’è gli psicologi a scuola non devono fare assistenza, se non in rarissimi casi di malattia realmente conclamata e incurabile. E ribadisco anche il concetto che il 99% dei bambini dichiarati con dislessia, discalculia, disprassia, disortografia, disgrafia, ADHD ecc. non sono di competenza dello psicologo, ma dei pedagogisti con una valida realtà interna e una identità forte nella propria professione.
Vi spiego il perché di ciò che affermo, raccontandovi di una mia specifica e decennale formazione per l’aggiornamento professionale.
Lo psicologo abilitato o lo psichiatra che fa psicoterapia (ovvero che cura la malattia del pensiero, quindi la psiche e non una malattia organica, e soprattutto lo fa senza psicofarmaci perché la psiche si è ammalata nel rapporto con gli altri e nel rapporto medico-paziente va curata), hanno bisogno per concretizzarlo di una prassi medica specifica che è quella indicata dallo psichiatra Massimo Fagioli, ovvero l’interpretazione della parte non cosciente di noi, che si esprime nei sogni durante la notte e che è conoscibile, contrariamente a quanto affermava Sigmund Freud. Nell’interpretazione del sogno, ovvero nelle interpretazioni delle negazioni che uno fa al rapporto umano e che alterano il pensiero fino a far star male la persona, si trova la cura. Per fare ciò, per comprende le nostre negazioni è chiaro che ci vuole un adulto consenziente. Quindi la psicoterapia come cura è fattibile dall’adolescenza in poi.
Piano, piano… non gridate! Già sento tantissime critiche piombarmi addosso dichiarando che esistono tanti altri tipi di psicoterapia (comportamentista, cognitivista ecc). Lo so, ma io per studi personali e per una profonda ricerca e formazione della mia identità umana e professionale ho scelto di dar credito all’unico medico che ha scoperto con la Teoria della nascita**, le origini della malattia mentale, come nasce il pensiero e come si trasforma, e da qui parto.
Tornando al discorso dei “disturbi” dell’apprendimento vi spiego perché sostengo che sono competenza dei pedagogisti pur riconoscendo l’attività dello psicoterapeuta e quindi di colei che cura il pensiero.
Innanzitutto perché escludo i bambini dall’unica prassi terapeutica efficace per la cura della malattia della mente, ovvero l’interpretazione del sogno. Altro motivo, perché se la realtà biologica della mente ci parla di plasticità, ovvero di capacità di recupero cognitiva straordinaria per lesioni organiche avvenute nei primi nove anni di vita del bambino, allora perché non pensare con metodo deduttivo ad una plasticità psichica, ovvero una capacità di recupero sulle difficoltà cognitive date da rapporti pedagogici sbagliati e che si esprimono nella realtà scolastica, ma che sono superabili con un rapporto di relazione educativa valido.
Per risolvere difficoltà scolastiche ed evitare che poi nell’adolescenza (avendo perduto totalmente l’autostima, il rapporto con l’adulto, la giusta relazione con la scuola), quella difficoltà possa trasformarsi in patologia, non resta altro che una prassi di rapporto corretta con i bambini (ovvero una relazione educativa) e un’identità professionale esatta (ovvero la conoscenza precisa delle proprie competenze), affinché quelle difficoltà cognitive, siano superabili con il pedagogista che conosce la realtà umana in ogni suo aspetto motivando, spronando, avendo fiducia nelle capacità e unicità dell’altro e formando attraverso la didattica. Non con la cura quindi! Nè con l’assistenza! Ma con una prassi pedagogica di relazione educativa esatta e una didattica appropriata. Il pedagogista non impartisce insegnamenti, il pedagogista è in un certo modo e si muove con specifiche competenze didattiche.
Se il disturbo dell’apprendimento, come spiego in dettaglio nei miei corsi e nel mio libro Bambini senza DSA: una realtà possibile! non ha origini genetiche, né neurobiologiche, è possibile, come ho accennato, che abbia origini psichiche, del pensiero, ovvero che quelle problematiche didattiche nella matematica, nell’italiano, nella grammatica o altro, nascano in un errato rapporto relazionale, lo stesso che costruisce nel tempo il pensiero umano e la capacità cognitiva. Se ciò è vero (come lo dimostrano i bambini che vengono al mio studio superando le difficoltà incontrate a scuola), è chiaro che il mio rapporto con loro è su base pedagogico-didattica, quindi formativa, e pertanto assolutamente unica ed esclusiva di chi si occupa di pedagogia e formazione.
Lo psicologo, ma anche un genitore, un amico, un nonno, potrebbe fare una parte di questo lavoro (ovvero instaurare una relazione educativa corretta, sempre se sa cosa sia), ma non conoscendo pedagogia e didattica, non otterrebbe il risultato atteso. Non solo. Se vogliamo trattare il bambino con la psicoterapia, su quale teoria e prassi poggia la stessa se il bambino non è consapevole e partecipativo dell’interpretazione del sogno? Se il bambino è oppositivo perché non comprende le motivazioni per cui debba passare un’ora con uno psicoterapeuta, come potrebbe funzionare la relazione? Certo, lo psicoterapeuta potrebbe passare del tempo con lui giocando e adottando un rapporto corretto. Sì, questo si può fare. Ma resta un lavoro a metà non conoscendo la parte didattica per il recupero delle materie. Se la difficoltà è su base relazionale e strettamente collegata alle attività scolastiche, come potrebbe superare quelle problematiche se non attraverso un progetto di relazione-formazione-didattica?
Vi ricordo che insegnare alle scuole primarie non è prerogativa di colui che sa scrivere e far di conto, ma è una realtà identitaria professionale certificata da studi universitari scientifici come lo sono la stessa pedagogia e la didattica.
È chiaro inoltre che lo studio della psicologia nel lavoro pedagogico, è solo di conoscenza delle modalità con cui l’adulto deve porsi nei confronti dell’altro essere umano e di formazione sana della propria identità (come potrebbe essere per un infermiere che ha a che fare con i malati o per un avvocato che ha a che fare con persone che a vario modo soffrono, e avere “tatto ed empatia”, spesso è più utile che vincere una causa).
A noi pedagogisti la psicologia ci serve come ci serve conoscere l’antropologia, piuttosto che la storia o la sociologia o la filosofia. Tutte queste discipline umanistiche che raccontano dell’essere umano con cui abbiamo a che fare ogni giorno fanno parte del nostro bagaglio accademico culturale e formativo, ma non per questo potremmo poi dire di essere sociologi o antropologi o filosofi o storici e così via. Quindi, cari psicologi non abbiate paura di chi, laureato in pedagogia, ha una forte e matura identità professionale oltre che la conoscenza della materia psicologica, perché mai si spaccerebbe per psicologo o farebbe il vostro mestiere. Esattamente come noi pedagogisti ci aspettiamo che voi possiate comprendere come non vi sia possibile “assistere e/o curare” attraverso la formazione e/o la didattica.
Sta a chi legge ora stabilire cosa sia meglio a scuola: pedagogia o psicologia?
Tiziana Cristofari
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* T.Cristofari, Bambini senza DSA: una realtà possibile!, Figli Meravigliosi, 2016.
** M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, 1^ ed. 1972, 14^ ed. 2017 L’asino d’oro.